Supportare l’innovazione e valorizzare il Made in Italy, finanziando startup e aziende che innovano in diversi campi: dall’elettronica alla robotica, dal digitale al biotech.
Questa la mission di Indaco Venture Partners SGR: uno dei principali operatori indipendenti italiani di Venture Capital. Davide Turco ne è co-fondatore e Amministratore Delegato.
Fondata nel 2016 e operativa dal 2018, la Società di Gestione del Risparmio da allora ha investito in 25 progetti: “Il nostro target è costituito da aziende che hanno superato la prima fase di proof of concept e la fase seed e sono pronte allo scale up”.
L’attenzione di Indaco è rivolta in particolare al mercato italiano, ma laddove ci siano progetti interessanti, ambiziosi e promettenti non ci sono confini che tengano. “Ci piace investire in Italia – racconta infatti Turco – ma per fare bene questo lavoro è importante ragionare globalmente, e per farlo è opportuno mettere il naso fuori dai confini”. E così, anche se la locazione prevalente è in Italia, Indaco ha fatto anche investimenti all’estero. “Soprattuto in Europa e Israele” puntualizza l’AD.
Davide Turco, concentriamoci sul settore Life Science.
Il medicale è un settore strategico per Indaco. Investiamo in progetti che sviluppano device, diagnostica, Digital Health: alcuni sono già sul mercato, altri in fase di sviluppo e alcuni in fase di ricerca (clinica o pre-clinica). Attualmente stiamo supportando 8 progetti in questo ambito. E 2 anni fa, a maggio 2022, abbiamo fatto partire un fondo dedicato al Pharma, si chiama Indaco Bio.
Indaco Bio Fund investe nello sviluppo di terapie farmacologiche innovative?
Indaco Bio Fund investe in progetti che sviluppano nuovi approcci terapeutici. L’obiettivo è supportare lo sviluppo di nuovi farmaci, dalle fasi pre-cliniche a quelle cliniche. La strategia del fondo prevede sia il supporto a nuove startup early stage, nate dai laboratori di ricerca, sia il finanziamento di round serie A e oltre.
Tra i primi destinatari degli investimenti di Indaco Bio Fund ci sono Sibylla Biotech, spinoff dell’INFN e delle Università di Trento e Perugia, e Hoba Therapeutics, una società biotecnologica danese.
Di recente abbiamo fatto due investimenti in Danimarca: si tenga presente che il gruppo europeo che capitalizza di più in Borsa è Novo Nordisk, gruppo attivo nel biotech e nel pharma, co-investitore con noi in Hoba. Hoba è una società danese impegnata nello sviluppo di nuove terapie per il dolore neuropatico cronico, che rappresenta un’importante esigenza medica insoddisfatta per molti pazienti oncologici trattati con la chemioterapia.
Altro progetto su cui abbiamo investito, sempre in Danimarca, riguarda la salute femminile. Freya Biosciences fa ricerca sul microbiota vaginale per curare alcune patologie ginecologiche, in particolare endometriosi e infertilità.
Sibylla Biotech, invece, ha sviluppato una piattaforma tecnologica per la ricerca farmacologica per il trattamento di malattie che oggi non hanno ancora una cura. Lo spin-off utilizza una piattaforma proprietaria che, grazie a super-computer con enormi capacità di calcolo, permette di studiare il ripiegamento delle proteine per identificare nuovi farmaci innovativi e nuove classi di bersagli molecolari.
Altre società in cui avete investito stanno lavorando invece alla frontiera dell’ingegneria genetica.
Sì. Alia Therapeutics è un’azienda di Trento che si occupa di gene editing e con questa tecnologia di frontiera punta a sviluppare terapie basate su CRISPR per diverse malattie genetiche, tra cui la retinite pigmentosa. Mentre Nouscom è una società operativa in Italia che ha raccolto capitali all’estero e si dedica allo sviluppo di vaccini oncologici: un approccio innovativo per stimolare la risposta immunitaria dell’organismo contro l’aggressione tumorale.
Quali parametri indirizzano Indaco Bio Fund nella selezione dei progetti su cui investire?
Innanzitutto partiamo dall’individuazione di un unmet medical need. In caso di una patologia che non ha una cura efficace, valutiamo se il nuovo approccio terapeutico sia in grado di rispondere a questo bisogno. Poi valutiamo il mercato potenziale. Quanto più è ampia la platea dei pazienti, tanto più è grande il potenziale di mercato dell’iniziativa. E, non ultimo, la qualità dei ricercatori e dei manager coinvolti nel progetto, per poter trasferire efficacemente l’innovazione dal laboratorio in un candidato farmaco e seguirlo nelle fasi pre-cliniche e cliniche fino al letto del paziente.
Ma prendiamo in considerazione anche la proprietà intellettuale, perché per arrivare sul mercato con nuovo farmaco servono centinaia di milioni e senza un solido meccanismo d’azione ma anche senza una difesa brevettuale diventa tutto molto difficile.
Parliamo di trasferimento tecnologico. In Italia c’è una ricerca scientifica di eccellenza che però stenta a creare valore economico. In altre parole, il trasferimento tecnologico dal laboratorio al mercato ancora è un terreno da battere fino in fondo: una questione di investimenti o anche di cultura imprenditoriale da incentivare in chi fa ricerca accademica?
Questa analisi è corretta, ma l’ecosistema dell’innovazione, nel mondo Life Science in particolare, ha fatto grandi passi avanti. Detto questo, investimenti non adeguati e una non capillare cultura imprenditoriale ostacolano il trasferimento tecnologico in Italia.
Da un lato, infatti, il mondo dell’accademia e della clinica ancora non hanno piena visione, consapevolezza e attitudine a comprendere il mondo del business, mentre all’estero c’è un’osmosi tra ricerca e business. Dall’altro i Venture Capital sono ancora pochi.
In Italia si investe ancora molto poco nel Venture Capital e questo fa sì che le startup abbiano meno capitali e quindi un profilo di rischio più elevato. E il fatto che ci siano meno capitali, rende startup e mondo Venture Capital in Italia meno attraenti per i talenti. Si consideri che il settore Life Science richiede competenze specialistiche molto avanzate e i talenti tendono ad andare dove ci sono capitali che permettono di valorizzare adeguatamente le loro competenze.
Insomma, i capitali da soli non bastano: servono soldi, infrastrutture, competenze, capacità di comprensione reciproca tra mondo del business e della finanza e mondo della ricerca. Ma la disponibilità di capitale è parte della soluzione del problema.
Dal nostro punto di vista la qualità della ricerca c’è e idee valide da finanziare non mancano.
Per concludere, possiamo dire che Indaco Venture Partners e Indaco Bio giocano un ruolo importante nell’ecosistema dell’innovazione, in particolare nel mondo Life Science?
Abbiamo dalla nostra tanta esperienza, un network di esperti nelle varie verticali in cui investiamo e capitali, anche grazie a soci e investitori importanti. Noi mettiamo tutto questo a servizio delle migliori aziende italiane che vogliono fare il grande salto. Finora abbiamo fatto più di 15 exit di successo. Numero di rilievo in Italia. Per fare sempre del nostro meglio, riteniamo utile lavorare in pool anche con altri investitori. In altre parole, nella nostra attività molto spesso co-investiamo, perché riteniamo che scegliendo bene il pool di investitori si possano massimizzare i capitali, ma anche le competenze del network.