La sfida dei talenti: le difficoltà dell'Italia nel contesto delle pressioni finanziarie sulla ricerca globale

Corsa ai cervelli: precarietà e sottofinanziamento in Italia frenano la sfida agli USA

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Mario Catalano

Perché ne stiamo parlando
I tagli alla ricerca negli Stati Uniti potrebbero spingere talenti verso l’Europa, ma l’Italia rischia di non poterli accogliere a causa di precarietà e sottofinanziamento cronico interni.

Mentre l’Europa guarda con interesse ai ricercatori e alle ricercatrici che potrebbero considerare di lasciare gli Stati Uniti a causa delle pressioni finanziarie e delle riorganizzazioni istituzionali sotto l’amministrazione Trump, l’Italia si trova a fare i conti con profonde difficoltà interne che rendono arduo attrarre e trattenere talenti.

Sebbene l’obiettivo di accaparrarsi i “cervelli in fuga” possa sembrare attrattivo nel contesto di tagli significativi Oltreoceano, la realtà italiana è frenata da una precarietà strutturale e un sottofinanziamento cronico che pongono il Paese in una posizione svantaggiata in questa “competizione” globale.

Il contesto negli Usa: cifre di tagli e pressioni

Il confronto economico tra la situazione descritta negli USA e quella italiana è stridente. Negli Stati Uniti l’amministrazione Trump sta tagliando finanziamenti e riorganizzando le istituzioni scientifiche e accademiche.

Secondo quanto riportato su Science Business, nel campo della ricerca biomedica sarebbero già stati fermati circa 800 finanziamenti, per un valore complessivo di oltre 1 miliardo di dollari. Uno degli obiettivi del prossimo anno fiscale sarebbe quello di tagliare 21 miliardi di dollari, ovvero il 55%, dal bilancio del National Institute of Health (NIH). La bozza del bilancio complessivo in Ricerca e Sviluppo (R&D) dell’anno fiscale corrente approvata dai Repubblicani è di 193,4 miliardi di dollari, rappresentando un taglio del 3,7% rispetto al bilancio 2024.

Secondo la American University, tagli effettivi del 25% nei fondi federali costerebbero al PIL una riduzione del 3,8%. Tagli del 50% falcerebbero il PIL del 7,6 per cento. Tra le istituzioni colpite: la US National Science Foundation (NSF) vede sparire 5 miliardi di dollari (il 56% delle risorse), i National Institutes of Health (NIH) in campo medico perdono quasi il 40%, circa 20 miliardi di dollari, il Centro per il controllo delle malattie infettive (CDC) ha in gioco un terzo dei suoi 9,6 miliardi di dollari, il Dipartimento dell’istruzione vede svanire 12 miliardi di dollari, la NASA perde il 53% del budget.

La situazione italiana: precarietà e sottofinanziamento cronico

Di fronte a un quadro internazionale caratterizzato da pressioni finanziarie, l’Italia si trova ad affrontare significative difficoltà interne che rendono complesso attrarre e trattenere talenti. La principale causa di queste difficoltà, secondo le associazioni di ricercatori, è la mancanza cronica di finanziamenti e il sottofinanziamento delle università. Per capire il fenomeno, la spesa in ricerca e sviluppo in Italia nel 2023 era pari all’1,37% del Pil (fonte Osservatore conti pubblici italiani), in Francia al 2,10%, in Germania al 3,1, in Belgio al 3,3, in Svezia al 3,6. Inoltre la carriera universitaria in Italia inizia tardi rispetto alla media europea, con l’età media per il PhD a circa 30 anni, e addirittura 32 anni e 6 mesi in media.

La Legge Gelmini (240/2010) ha introdotto figure precarie post-dottorato come l’assegno di ricerca e il RTDA (Ricercatore a Tempo Determinato di tipo A), sostituendo il ricercatore a tempo indeterminato. L’assegno di ricerca è una posizione parasubordinata inizialmente priva di tutele base, mentre il RTDA è lavoro subordinato ma senza garanzia di progressione. Solo il RTDB (Ricercatore a Tempo Determinato di tipo B) prevedeva un meccanismo di tenure verso il ruolo di professore associato.

«Gli effetti della Legge Gelmini sono stati l’espansione della precarietà e la trasformazione della progressione in un “imbuto”», commenta Davide Clementi, segretario nazionale ADI (Associazione Dottorandi e Ricercatori Italiani). Il 40% della forza lavoro universitaria è composta da assegnisti e RTDA, e oltre il 60% è personale a tempo determinato includendo i dottorandi. Questo ha portato a un invecchiamento progressivo del sistema, con l’età media di accesso alle posizioni stabili sempre più alta (RTDB a circa 40 anni nel 2022, associato a circa 43). L’età media di un associato è circa 51 anni. La Riforma Messa (Legge 79/2022) mirava a semplificare e introdurre figure più coerenti con l’Europa, come il Contratto di ricerca (biennale, lavoro subordinato con tutele) e il RTT (Ricercatore a tempo determinato tenure track).

«Tuttavia, questa riforma è stata in parte smantellata e non sufficientemente finanziata. Gli stanziamenti per i contratti di ricerca previsti dalla Legge 79 sono stati insufficienti: solo 37,5 milioni di euro», aggiunge Clementi. Il contesto attuale vede proroghe per gli assegni di ricerca e la creazione di nuovi gruppi di lavoro per riformare nuovamente la materia.

«Proposte come il DDL 1240 (“Cassetta degli attrezzi”) peggiorerebbero il “labirinto” delle figure, reintroducendo figure simili all’assegno (assistente alla ricerca junior/senior senza indennità di disoccupazione) e non prevedendo limiti all’accumulo di figure precarie, con il rischio di un precariato esteso fino a 15-17 anni post-dottorato. Anche un recente emendamento al Decreto Scuola (DL 1445) mantiene ambiguità e sembra riproporre figure precarie post-doc», chiosa il segretario nazionale ADI.

Le principali difficoltà dell’Italia nell’attrarre talenti

In questo scenario, sono cinque le principali difficoltà che l’Italia affronta nel competere per i migliori ricercatori, indipendentemente dalla loro provenienza: precarietà estesa e mancanza di stabilità (la predominanza di figure a tempo determinato rendono la prospettiva di una carriera in Italia significativamente meno stabile e attrattiva rispetto a sistemi che offrono percorsi più lineari e con tenure più rapida); sottofinanziamento cronico e insufficienti investimenti (la mancanza di finanziamenti adeguati non solo limita le risorse per la ricerca stessa, ma impedisce l’istituzione di posizioni stabili e dignitosamente retribuite); la mancanza di risorse sufficienti per implementare pienamente riforme come la Legge 79 e il rischio di “licenziamenti di massa” per figure assunte su fondi straordinari come il PNRR creano un clima di forte incertezza e rendono difficile la programmazione a lungo termine per le università; ritardo nell’accesso ai ruoli stabili (l’età media elevata per l’accesso a posizioni permanenti significa che un ricercatore che arriva in Italia da un sistema più efficiente potrebbe trovarsi di fronte a un percorso di stabilizzazione particolarmente lungo e arduo); mancata applicazione delle riforme (la loro mancata o non corretta applicazione da parte degli atenei può vanificare i benefici e prolungare ulteriormente il precariato).

«Un esempio lampante di ciò che è il mancato riconoscimento in diversi atenei del servizio pregresso come RTDA o assegnisti di ricerca, oppure il mancato adeguamento stipendiale per la categoria dei ricercatori in tenure track, in palese violazione della legge, motivo per cui come ARTeD stiamo ricorrendo alle vie legali», fa sapere Filippo Pellitteri, segretario ARTeD (Associazione dei Ricercatori a Tempo Determinato); sistema complesso e in continua mutazione: la tendenza a reintrodurre figure precarie a creare un “labirinto” di posizioni rende il sistema poco trasparente e difficile da navigare per i ricercatori, sia italiani che stranieri.

Pellitteri critica le nuove proposte: «Il DDL 1240 rischiava di creare una “selva inutile” di figure precarie. Anche l’emendamento più recente (DL 1445) mantiene molte ambiguità, parlando di “indennità” anziché “retribuzione” per il contratto post-doc in modo “inquietante”». Esprime un rifiuto dell’impostazione politica generale che tende a precarizzare ulteriormente e aumentare lo sfruttamento del lavoro universitario e di ricerca.

Sottolinea con forza che: «La ricerca è un lavoro e come tale va trattata con rispetto e dignità in qualsiasi fase della carriera, anche durante il dottorato di ricerca». Mostra preoccupazione per riforme più ampie, come il DDL 1192, che: «Prevede una “delega in bianco” al governo per un ampio riordino del sistema universitario (reclutamento, valutazione, governance)».

Keypoints

  • Negli Stati Uniti l’amministrazione Trump ha tagliato 1 miliardo di dollari alla ricerca biomedica
  • La carriera universitaria in Italia inizia tardi rispetto alla media europea
  • Il 40% della forza lavoro universitaria è composta da assegnisti e RTDA
  • Oltre il 60% è personale a tempo determinato includendo i dottorandi
  • L’età media di un associato è circa 51 anni
  • Gli stanziamenti per i contratti di ricerca previsti dalla Legge 79 sono stati 37,5 milioni di euro
  • Davide Clementi è segretario nazionale ADI (Associazione Dottorandi e Ricercatori Italiani)
  • Filippo Pellitteri è segretario ARTeD (Associazione dei Ricercatori a Tempo Determinato)

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