È stato un Regio Decreto nel 1939 a istituire la Società Italiana di Farmacologia su iniziativa di Pietro Di Mattei. Ma solo dal 2026, alle redini della SIF ci sarà una donna. Monica Diluca sarà la prossima presidente dell’associazione che promuove la ricerca, la formazione e la divulgazione nell’ambito della farmacologia e delle terapie farmacologiche.
«Sicuramente è un grande traguardo, e non solo personale» afferma Diluca.
Docente di farmacologia e prorettrice alla ricerca all’Università degli Studi di Milano, Diluca è la nostra innovatrice del mese, la prima del 2025. La professoressa ha legato la sua attività accademica alle malattie neurodegenerative. Il suo principale ambito di ricerca è la plasticità sinaptica. Scopo primario del suo lavoro è riuscire ad applicare i risultati della ricerca di base alla cura delle malattie del sistema nervoso centrale, prima fra tutte l’Alzheimer.
Professoressa, innanzitutto congratulazioni. Dal 2026 al 2028 sarà la prima donna alla presidenza della Società Italiana di Farmacologia.
«Penso che la SIF meriti una presidente, perché ormai c’è una presenza importante di giovani ricercatrici nella nuova generazione di farmacologi. Ritengo quindi importante dare loro una prospettiva positiva, una visione nuova, moderna, che rispetti la gender equality e il concetto di inclusione affinché possano contemplare la possibilità di entrare a far parte della governance della Società. Penso che in futuro molte più giovani donne si avvicineranno alla policy della scienza, anche attraverso la SIF. Lo spero fortemente e non nascondo che per me è una grande soddisfazione essere per loro un role model: spenderò una particolare attenzione, durante la mia presidenza, nei confronti della nuova generazione».
Quali sono le sfide più urgenti sul fronte della farmacologia e della scienza del farmaco?
«La farmacologia è una scienza in continua evoluzione, fortemente implicata con altre discipline e chiamata ad affrontare sfide importanti: innanzitutto, uno sforzo di innovazione. Dobbiamo imparare a capitalizzare sui risultati della ricerca fondamentale, che sono tanti e di qualità: in altre parole, dobbiamo imparare a trasferire sul territorio l’ottima ricerca che si fa in Italia. Questo è vero in tutti in campi e particolarmente per la neurofarmacologia. Perché le patologie del sistema nervoso centrale sono ancora, nella maggior parte dei casi, in assenza di una cura definitiva».
A proposito di trasferire la ricerca dal laboratorio al paziente, quali sono le innovazioni terapeutiche più significative degli ultimi anni nel campo delle malattie neurodegenerative e in particolare per la malattia di Alzheimer?
«Abbiamo finalmente almeno un farmaco ammesso di nuova generazione e questo rappresenta un passo avanti fondamentale. Indipendentemente dal fatto che questo farmaco – mi riferisco all’anticorpo monoclonale lecanemab – possa essere usato da una percentuale piccola di pazienti, apre la porta a innovazioni terapeutiche future per la malattia di Alzheimer e questo è davvero molto importante. Perché la malattia di Alzheimer rappresenta la seconda patologia più costosa per la società e per i pazienti in Europa e in tutto il mondo e questo carico sociale non può che essere in crescita. I numeri non mentono».
Si riferisce al fatto che il carico delle malattie neurodegenerative in generale e dell’Alzheimer in particolare è destinato a crescere con l’invecchiamento della popolazione?
«Sì. Ma per fortuna c’è molta ricerca, estremamente attiva, e finalmente ci sono sviluppi nella ricerca fondamentale molto importanti che mettono l’accento non tanto sulla patogenesi primaria della malattia, che è legata alla formazione di amiloide – che rimane un target fondamentale -, ma sulla possibilità di intervenire in pazienti estremamente precoci, andando a colpire la disfunzione dei circuiti sinaptici eccitatori. Cercare di ristabilire la capacità del sistema nervoso di mantenere i circuiti eccitatori attivi e plastici, cioè capaci di adattarsi, è il futuro».
Di fatto però ancora non abbiamo un “magic bullet” che possa risolvere il problema: l’aggregazione patologica delle proteine che “impazziscono” e causano la neurodegenerazione.
«Aspetti di patogenesi diversi concorrono alla malattia di Alzheimer, e non possiamo pensare che l’aggregazione di queste proteine, che creano le disfunzionalità che ben conosciamo, agisca in modo isolato. Esistono tanti altri parametri, uno è quello che citavo prima: la disfunzione sinaptica, cioè del contatto tra i neuroni. Diagnosticamente, questa disfunzione è una delle alterazioni che compaiono prima nella malattia di Alzheimer. E studi diagnostici, anche rafforzati da studi farmacologici preclinici, ci indicano come identificare il biomarcatore sinaptico più importante. Ma esistono tanti altri paradigmi: il sonno, l’infiammazione, la disfunzione metabolica. Tutto concorre alla malattia. Quindi è vero, non abbiamo la pallottola magica, iniziamo appena a colpire il target primario che è l’aggregazione delle proteine tau e beta amiloide, ma possiamo coniugare questo approccio con una rosa di altri interventi che mirano a colpire gli altri fattori che sono concause di malattia».
Parlando di Alzheimer parliamo di una malattia che conosciamo dal 1906, quindi di oltre un secolo di ricerca e di scoperte ma anche di domande e sfide ancora aperte. Cosa significa innovare in questo campo?
«Innovare in campo Alzheimer significa trasferire al più presto le tante conoscenze che la ricerca fondamentale ha prodotto, anche solo negli ultimi 15 anni, per portarle al paziente. E alcuni passi avanti in tal senso sono stati fatti. Sicuramente negli ultimi anni la ricerca preclinica ha aiutato tantissimo nella caratterizzazione della diagnosi. Prima era squisitamente clinica, ora sappiamo che i centri più avanzati fanno diagnosi molecolare della malattia. Questo vuol dire mappare la beta amiloide nel cervello del paziente, mappare la proteina tau, ma anche la disfunzione sinaptica e il livello di infiammazione. Questo è stato uno scarto innovativo eccezionale, perché permette di stratificare il paziente e quindi offrire soluzioni farmacologiche più mirate. Ora dobbiamo andare avanti così e, come abbiamo fatto nel campo diagnostico, dobbiamo riuscire a trasferire anche nella terapia le conoscenze in campo preclinico, che sono avanzatissime».
Professoressa lei ha sottolineato i costi altissimi, sociali ed economici, delle malattie neurologiche, destinati verosimilmente ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione. Oggi si parla di brain capital. Cosa si intende?
«Il concetto di brain capital è nuovo e affascinante. Indica una forma di capitale legato alle competenze cognitive individuali e alla salute del cervello. L’Economist, per esempio, ha definito gli investimenti delle nazioni sulla salute del cervello come un best buy.
La visione è questa: nel misurare la salute di una nazione, non bisogna guardare solo al Pil, all’ottimismo del consumatore, alla disoccupazione, eccetera, ma anche al brain capital, quale nuovo paradigma di progresso per garantire la ripresa economica e la resilienza. In altre parole, il brain capital va oltre il concetto di salute del cervello e può essere visto come una sorta di risorsa economica, che integra la salute del cervello e le competenze cerebrali individuali ed è fondamentale per raggiungere anche obiettivi socioeconomici. Mantenere in salute il cervello è sicuramente la sfida del nostro futuro, per tutte le nazioni. Si consideri che dieci anni fa è stato stimato che i costi totali delle malattie del cervello in Europa ammontano a 800 miliardi di euro all’anno, 87 miliardi in Italia. Questo costo non è sostenibile. Se stimiamo l’inflazione, stiamo parlando di più di 1000 miliardi ogni anno. Questo significa che la salute del cervello sta diventando una bomba a orologeria».
Proprio per preservare la salute del cervello, gli organoidi cerebrali possono essere considerati la nuova frontiera per lo studio delle malattie neurodegenerative?
«La ricerca preclinica è stato il percorso di tutta la mia vita. Credo che ogni innovazione in questo campo sia utile e gli organoidi sicuramente lo sono: rappresentano uno straordinario e molto potente strumento in vitro e ci consentiranno, tra le altre cose, di fare uno screening di farmaci molto più rapido in un contesto più organizzato rispetto alla semplice cellula in vitro».
E parlando di digitalizzazione, la medicina digitale può essere di aiuto nella malattia di Alzheimer? Come?
«Penso di sì. Chiaramente ora siamo solo agli inizi, ma ci sono già alcuni approcci di medicina digitale approvati, anche per il rimborso, soprattutto in Germania, che consentono un minimo di training cognitivo. Parliamo di dispositivi medici da mirare ai pazienti in fase precoce. Perché la stimolazione della capacità adattativa e plastica dei circuiti è importante nelle prime fasi di malattia. La malattia di Alzheimer ha mille sfaccettature e mille livelli: questi dispositivi digitali possono avere la loro utilità per i pazienti affetti da fase precoce di malattia. Ci sono studi clinici che ne evidenziano l’efficacia. La strada è lunga, ma stiamo iniziando a percorrerla».
In generale, la strada è lunga per portare auspicabilmente al mercato anche nuovi farmaci?
«L’innovazione, soprattutto nel campo della neurofarmacologia, è una sfida enorme. Rispetto ad altri campi della farmacologia, i farmaci per il sistema nervoso impiegano circa 6-8 anni in più per arrivare al mercato e al paziente, con una percentuale di rischio doppia.
Ma innovazione non vuol dire solo immissione nel mercato precompetitivo di un nuovo prodotto. Per fare innovazione in questo campo bisogna mantenere l’attenzione su quella che, come abbiamo già detto, è una delle sfide più grandi della nostra società e bisogna non abbandonare la ricerca fondamentale, perché nel campo delle neuroscienze e della salute del cervello l’innovazione è un concetto a ampio spettro, che va dalla nuova idea che matura nella mente di chi fa ricerca ad aspetti innovativi in ambito regolatorio».