Capacità di trattenere i nostri cervelli; utilizzo efficiente delle piattaforme tecnologiche, non avere paura di far lavorare pubblico e privato insieme, finanziare in modo serio il settore, senza disperdere le risorse. Tanti spunti per provare a capire perché la ricerca nostrana finisce all’estero o si perde per strada. E una considerazione su tutte: “Abbiamo bisogno di maggiori risorse e di un sistema in grado di abilitare l’eccellenza che ci consentano non solo di trattenere in Italia i nostri scienziati più bravi, ma anche di attrarre cervelli stranieri”. Ce lo dice Francesca Pasinelli, che di ricerca clinica se ne intende.
Perché facciamo fatica a trattenere i nostri più brillanti cervelli, troppo spesso reclutati da ogni parte del mondo?
È vero. Il nostro paese ‘immette’ nel sistema mondiale della ricerca bravissimi scienziati che spesso, oltre a perfezionare la propria formazione all’estero come è giusto e anche auspicabile che sia, poi scelgono di non rientrare in Italia. In questo modo sono altri paesi a raccogliere i frutti del loro talento in termini di progresso scientifico, brevetti, farmaci e così via. E allo stesso tempo noi non attiriamo un flusso corrispondente di cervelli stranieri che vengano qui a fare ricerca”.
È solo una questione di soldi?
“Il tema dei fondi non è secondario perché le risorse servono per mettere i ricercatori nelle condizioni di lavorare al meglio e cioè in progetti adeguatamente finanziati e con tutte le infrastrutture necessarie per svolgere la ricerca ai massimi livelli, proprio come avviene nei paesi considerati più attrattivi. Tuttavia, non è solo un tema di risorse”.
Cos’altro non va?
“Manca nel nostro paese un sistema ricerca che sia realmente in grado di abilitare l’eccellenza. E cioè una visione complessiva, la capacità di individuare le aree strategiche sulle quali indirizzare gli investimenti, la dotazione della ricerca accademica di forti competenze nell’ambito del trasferimento tecnologico e un metodo di selezione che metta in competizione tutte le forze in campo. Proprio come quando si selezionano gli atleti che parteciperanno alle Olimpiadi”.
Perché in Italia è così difficile il trasferimento tecnologico?
“In realtà non è solo una difficoltà italiana. Il passaggio dalla ricerca di base allo sviluppo di strategie di cura in ambito preclinico e poi alla validazione delle terapie con la ricerca clinica è molto complesso ed è proprio in questa fase che si registrano la maggior parte dei ‘fallimenti’. Tanto è vero che per cercare di colmare questo gap sono stati attivati programmi dedicati nei principali Paesi che finanziano ricerca. In Italia vi è certamente anche una difficoltà in più dovuta al fatto che, in generale, la ricerca accademica non è dotata di tutte le competenze che servono per gestire al meglio il trasferimento tecnologico e lo sviluppo di prodotti a partire dai risultati della ricerca e quindi di strumenti terapeutici e diagnostici nel caso della ricerca biomedica”.
Ricerca pubblica vs ricerca privata. È una competizione o un’alleanza?
“Restando nell’ambito biomedico, se guardiamo, per esempio, al campo delle terapie avanzate e ai vaccini, vediamo che si tratta di tecnologie, come la terapia genica e gli approcci basati sull’Rna, che sono nate proprio dalla ricerca accademica. Quindi non ha molto senso considerarle come “silos” separati. E penso sia anche controproducente ragionare in termini di contrapposizione perché un sistema sano è quello in cui pubblico, privato e terzo settore operano in modo sussidiario nel rispetto delle relative specificità”.
Quali sono le sfide e gli ostacoli che dovremo affrontare nel futuro?
“Per la ricerca italiana, la sfida è la costruzione di un sistema abilitante l’eccellenza, capace di intercettare l’innovazione e trasformarla in prodotti e strumenti utili alla collettività. Oggi un’opportunità imperdibile in questo senso ci è data dal PNRR. Devo dire che gli ostacoli, purtroppo, li ravviso proprio nel fatto che il piano stesso sembra rispondere, in alcune sue parti, a logiche che andrebbero superate. Per fare un esempio, si è puntato molto sulle grandi aggregazioni che distribuiscono i fondi ‘a tutti un po’’, ma rischiano di disperdere le forze in una gestione spesso farraginosa. L’ostacolo principale sta, comunque, nel fatto che la ricerca non è tra le priorità della politica”.
Quale dovrebbe essere oggi il nostro traguardo?
“Per dirlo in termini essenziali, dovremmo puntare a diventare un paese che, nell’era della conoscenza, non sia solo nella posizione del ‘pagatore’ rispetto a prodotti generati altrove. Questo vuol dire essere in grado di seguire i processi innovativi a partire dalla ricerca di base fino allo sviluppo industriale”.
In quale settore specifico ci si aspettano grandi novità nel prossimo futuro?
“Parlando sempre dell’ambito biomedico, che è quello che conosco da vicino, credo che potranno arrivare interessanti sviluppi dalla creazione di piattaforme tecnologiche in grado di affrontare in modo sistematico diverse malattie contemporaneamente. È ciò che si sta facendo per esempio nel campo della terapia genica dove, dopo molti anni di ricerca per mettere a punto la tecnologia, vi sono ora i presupposti per procedere a ritmo più serrato proprio con un approccio multi-piattaforma e rispondere così a numerose patologie potenzialmente trattabili con questa strategia di cura”.
I punti di forza e di debolezza della ricerca italiana sono gli stessi da ormai decenni. Se da un lato i nostri scienziati confermano di essere al top a livello globale, non possiamo dire altrettanto dei finanziamenti e delle strutture che mettiamo loro a disposizione. Anche se il PNRR ci offre un’opportunità unica per rilanciare la ricerca, e di conseguenza di produrre innovazione, senza un cambiamento profondo del sistema di distribuzione delle risorse e di riconoscimento del merito non riusciremo ad arrestare l’annosa emorragia di cervelli e a produrre innovazione. Ancora una volta si rischia di rimanere attori passivi, costretti a comprare i frutti prodotti dalle sue stesse menti altrove.