Ogni anno in Italia muoiono oltre 11.000 persone per infezioni da germi antibiotico-resistenti, praticamente un terzo di tutti i decessi nell’Unione Europea per questa causa. Giovanni Rezza, già direttore della Prevenzione al Ministero della Salute e professore straordinario di Igiene presso l’Università Vita-Salute San Raffele, non ha dubbi: «In passato si è fatto troppo poco per affrontare questa problematica, e oggi ci troviamo di fronte ad un’urgenza che richiede interventi immediati».
Secondo l’ultimo rapporto di sorveglianza del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) il rischio è forte: nel 2050 la prima causa di morte in Italia potrebbe essere dovuta alle infezioni resistenti agli antibiotici. “Ci si ammala di più e siamo arrivati a spendere per questo problema circa 1,5 miliardi di euro l’anno”, denuncia in un dossier appena pubblicato l’AIFA. Ma secondo la SIMIT, la Società malattie infettive e tropicali, “l’impatto di queste infezioni potrebbe essere ridotto di un buon 30%, inaugurando un percorso virtuoso”. Se si spende in misura sempre maggiore, che cosa non ha funzionato dunque nelle politiche sanitarie?
Fondi regionali mal gestiti: una critica alla politica sanitaria
Il prof. Rezza ricorda che il governo aveva messo a disposizione delle Regioni 41 milioni di euro all’anno destinati principalmente alla formazione del personale sanitario, un elemento fondamentale per gestire questa emergenza con maggiore consapevolezza e competenza. «Ma come hanno impiegato le Regioni questi soldi?», chiede. «Per ottenere risultati tangibili, è fondamentale che i fondi assegnati vengano utilizzati in modo appropriato e che si monitorino attentamente gli effetti di questi investimenti».
Ospedali al centro della diffusione: servono interventi concreti
Interventi, come sostiene il dossier AIFA, che riguardano non solo una maggiore appropriatezza prescrittiva da parte del personale medico, tanto in ambito umano che veterinario, ma anche un rinnovamento dei nostri ospedali, diventati veicolo di diffusione dei microbi: nel biennio 2022-23, 8,2% dei pazienti ricoverati in Italia hanno contratto un’infezione (media UE: 6,5%), e a quasi uno su due sono stati somministrati antibiotici, contribuendo alla proliferazione di superbatteri resistenti.
«A livello ospedaliero è necessario valutare l’efficacia dei comitati di controllo delle infezioni. Queste strutture hanno funzionato realmente o hanno agito solo formalmente? Hanno avuto un impatto concreto o sono rimaste poco incisive?» commenta il professore di Igiene della UniSR. «È indispensabile verificare e migliorare queste dinamiche. Le direzioni ospedaliere devono essere in prima linea, assumendosi la responsabilità di garantire interventi adeguati».
Un impegno collettivo per affrontare la resistenza agli antibiotici
È necessario, sostiene, un impegno collettivo e uno sforzo coordinato da parte di diversi attori. «Dal punto di vista medico, non può essere solo l’infettivologo a occuparsi della stewardship antimicrobica; tutti i medici devono essere coinvolti e formati per affrontare il problema in modo integrato. La prescrizione di antibiotici, ad esempio, deve seguire scrupolosamente linee guida aggiornate e scientificamente valide. Solo con un approccio così strutturato e consapevole possiamo sperare di arginare questa emergenza sanitaria», avverte.
La richiesta di avere alternative agli antibiotici in commercio, sempre meno efficaci contro le infezioni, è un altro nodo che tutti i Paesi europei devono sciogliere, considerando lo scarso interesse economico delle aziende farmaceutiche ad investire nello sviluppo di nuovi antibiotici. Il presidente di AIFA Nisticò chiede a riguardo una legge per incentivare la ricerca di nuovi antibiotici che aggirino le resistenze.
L’urgenza di nuovi antibiotici: incentivi per la ricerca
«Destinare fondi specifici alla ricerca e sviluppo è di fondamentale importanza», afferma Gianni Rezza. «Questo tipo di investimento contribuisce a uno sforzo globale, poiché attività di ricerca e innovazione vengono condotte in numerosi Paesi, specialmente in ambito europeo. È quindi cruciale che anche il nostro Paese partecipi attivamente a queste iniziative».
Anche Fabrizio Greco, Presidente Federchimica Assobiotec, rinnova l’appello a Istituzioni e decisori nel nostro Paese «affinché si riconosca il ruolo integrato di vaccini, dei nuovi antimicrobici e della diagnostica, si informi sul valore di queste soluzioni, se ne sostenga la ricerca e lo sviluppo e si introducano meccanismi premianti che sappiano riconoscere e dare valore all’innovazione». Da parte sua il Governo ha annunciato la disponibilità di 21 milioni di euro nel prossimo triennio, con una partnership globale senza scopo di lucro che sostiene lo sviluppo di nuovi antibiotici tramite incentivi ‘push’ per stimolare l’interesse dell’industria a investire nella ricerca.
Informazione e sorveglianza: pilastri contro la resistenza batterica
Nel frattempo, sta partendo la campagna, promossa da AIFA e Ministero della Salute, su Tv e altri media per sensibilizzare i cittadini ad un uso consapevole degli antibiotici.
«L’informazione ai cittadini, sebbene non possa risolvere da sola l’intero problema, rappresenta un pilastro fondamentale nella lotta contro la resistenza agli antibiotici», commenta il professore di Igiene.
Un fenomeno che è emerso negli ultimi anni con più evidenza anche grazie ai sistemi di sorveglianza presenti, che fanno capo ai distretti di prevenzione e hanno l’obiettivo di monitorare le infezioni batteriche: «La rete di sorveglianza è notevolmente migliorata negli ultimi anni, ampliandosi significativamente, garantendo una copertura territoriale molto più estesa rispetto al passato», sostiene Rezza. «Certo, c’è sempre margine di miglioramento, ma il progresso compiuto è evidente».
Alcuni risultati positivi si sono già osservati: tra questi, la riduzione delle resistenze in batteri come la Klebsiella e lo Staphylococcus aureus. «Tuttavia», ricorda, «ci sono ancora batteri, come alcune specie multi-resistenti, che pongono sfide rilevanti: si stima che tra l’80 e il 90% di certi ceppi siano resistenti agli antibiotici disponibili. Quindi, pur avendo fatto progressi, soprattutto nella copertura e nella qualità del monitoraggio, è evidente che resta ancora molto da fare per ottenere un controllo più efficace della situazione». E aggiunge: «Non aspettiamoci risultati visibili nel breve termine, perché è “un’epidemia silente”, un problema cronico che da anni genera un carico di malattia molto significativo e che, per essere affrontato in maniera efficace, necessita di strategie a lungo termine».