Nome: ALKemist Bio. Data di nascita: dicembre 2023. Segni particolari: determinazione.
ALKemist Bio è la startup che si prefigge di sviluppare la prima terapia cellulare con recettori di cellule T (TCR-T) per la lotta contro i tumori ALK-positivi. A fondarla Roberto Chiarle, Ordinario di Anatomia Patologica all’Università di Torino, Direttore della Divisione di Emolinfopatologia dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano e Professore di Patologia all’Harvard Medical School di Boston.
Torinese, classe 1968, con determinazione, appunto, Roberto Chiarle ambisce a portare il frutto della sua attività di ricerca dal bancone del laboratorio al letto del paziente – in questo caso, pazienti oncologici – sviluppando trattamenti innovativi e personalizzati.
Parola chiave: immunoterapia. L’immunoterapia cellulare proposta da ALKemist Bio punta ad addestrare il sistema immunitario per riconoscere e distruggere le cellule cancerose che presentano l’oncogene ALK.
L’attività di ricerca di Chiarle si focalizza infatti sullo studio della biologia dei tumori causati da alterazioni del gene ALK (Anaplastic Lymphoma Kinase) con l’obiettivo di riuscire a mettere a punto strategie terapeutiche.
Professore, innanzitutto facciamo chiarezza: cosa sono i tumori ALK-positivi?
I tumori ALK-positivi costituiscono un sottoinsieme di neoplasie aggressive che colpiscono vari organi: polmone, cervello, tiroide, colon. Includono anche i linfomi e tumori pediatrici rari come il neuroblastoma. Tumori diversi, dunque, accumunati dall’avere la stessa alterazione oncogenica quale meccanismo scatenante. Queste neoplasie, inoltre, rappresentano una sfida significativa dal punto di vista terapeutico perché acquisiscono resistenza ai farmaci attualmente disponibili.
Al momento ci sono alcuni farmaci approvati sia in Europa sia oltreoceano che agiscono proprio sull’oncogene ALK per ridurre la crescita tumorale.
Esistono cinque inibitori di ALK attualmente commercializzati: parliamo di farmaci intelligenti, di “target-therapy”, che bloccano l’attività di ALK. Tuttavia non sono terapie risolutive. In altre parole, riescono a mandare in remissione il tumore, ad arrestarlo per un po’ di tempo, talvolta anche per molti anni, ma raramente liberano completamente il paziente dalla malattia e quando la malattia si palesa di nuovo non è più responsiva alla terapia e rimane purtroppo poco da fare.
In cosa consiste invece il trattamento terapeutico a cui state lavorando?
Da queste considerazioni cliniche nasce la sfida di ALKemist Bio. La nostra idea è addestrare il sistema immunitario a fare quello che questi farmaci non riescono a fare: scovare ed eliminare fino all’ultima cellula tumorale residua. Perché se ne rimane anche una sola, questa prima o poi inizierà a crescere di nuovo.
Come?
Stiamo lavorando allo sviluppo della prima terapia cellulare con recettori di cellule T: i TCR-T sono recettori che si trovano sulla superficie dei linfociti T e permettono al sistema immunitario di riconoscere le cellule tumorali. Noi puntiamo a ingegnerizzare queste cellule per riuscire a distruggere le cellule cancerose che esprimono l’oncogene ALK.
Per aggredire ALK non si può ricorrere infatti a terapie con le CAR T o gli anticorpi perché queste immunoterapie agiscono sulla superficie della cellula. La proteina ALK invece si trova all’interno della cellula, nel citoplasma.
Dal punto di vista pratico come si traduce tutto questo in uno strumento terapeutico?
Di fatto vogliamo creare delle cellule ingegnerizzate sul modello delle CAR T. Vogliamo clonare e amplificare questi recettori e usarli per modificare i linfociti T dei pazienti con tumori ALK-positivi in modo che attrezzino il sistema immunitario a identificare l’oncogene ALK quando è dentro la cellula e a eradicare fino all’ultima cellula tumorale.
Nel primo round di investimento, guidato dal fondo di venture capital Claris Ventures, avete raccolto 6,9 milioni di euro. Quali i prossimi step?
Al round di investimento guidato da Claris Ventures hanno partecipato anche la holding di venture capital LIFTT e investitori privati del Club degli Investitori, Simon Fiduciaria, l’hub fiduciario del Gruppo Ersel e Italian Angels for Growth (IAG). Ora stiamo costruendo il team della company. Questi sette milioni serviranno per lo sviluppo pre-clinico, per validare la nostra scoperta. Dobbiamo dimostrare che ingegnerizzando i linfociti T con i recettori di cellule T effettivamente il sistema immunitario possa uccidere le cellule tumorali. In sostanza, vogliamo accumulare evidenze sperimentali, in vitro e in vivo, in modelli di tumore, per poter arrivare alla sperimentazione clinica sui pazienti.
La medicina oncologica sta diventando o per lo meno mira a diventare sempre più una medicina personalizzata, grazie alle terapie cellulari avanzate. Quale la sfida più grande da affrontare e vincere per arrivare dal laboratorio al letto del paziente, quindi al mercato?
La complessità del percorso, dall’avere una buona idea scientifica fino a riuscire a validarla. Una barriera è il costo dei trial clinici: si parla di 20-25 milioni di dollari. Quindi di investimenti considerevoli con un altro rischio di fallimento che nessuna agenzia di ricerca, in Italia ma nemmeno negli Stati Uniti, finanzia. Per cui una grossa sfida è trovare i finanziamenti. Fondare una company quindi permette di avere una leva per poter aspirare ad arrivare ai clinical trial. Che sono fondamentali per riuscire a portare una terapia innovativa ai pazienti.
La questione fondi a disposizione è cruciale. Nel caso della sua attività di ricerca, per esempio, sono stati fondamentali i finanziamenti del Consiglio Europeo della Ricerca, dei National Institutes of Health statunitensi… ma professore, il problema dei fondi destinati alla ricerca frena un avanzamento più rapido nello sviluppo di nuove terapie, considerando il ruolo importante della ricerca accademica nel campo dell’innovazione farmaceutica?
L’accademia ha un ruolo fondamentale nell’innovazione, però il mondo del pharma non deve essere più inteso come un mondo fatto da aziende interessate solo a commercializzare prodotti da vendere sul mercato. Negli ultimi vent’anni tutte le principali aziende si sono dotate di unità interne di Drug Discovery Research. Quindi se una volta era vero il binomio “l’accademia fa le scoperte e l’industria poi le commercializza” adesso non è più così e c’è una forte competizione tra accademia e big pharma proprio nelle fasi iniziali di discovery.