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Beverina (Panakes): “Oggi si investe e si crede di più nelle start up innovative, ma serve molta competenza per capire su quali investire”

Perché ne stiamo parlando
Dal 2015 il mondo delle start up innovative in Italia ha fatto un balzo in avanti, passando da 250 milioni di investimenti annui a circa due miliardi del 2022. Segno che gli investitori e le start up si lanciano di più. Ma non è facile azzeccare un investimento in un settore complesso come le Life science.

Beverina (Panakes): “Oggi si investe e si crede di più nelle start up innovative, ma serve molta competenza per capire su quali investire”
Alessio Beverina, co-founder di Panakes

Decidere di investire in una start up non è qualcosa che si può improvvisare. Il rischio è alto, soprattutto in ambito Life science e il capitale richiesto non sono noccioline. Esistono dei passaggi importanti da fare, analisi del mercato e dei bisogni sono fondamentali, ma ci vuole anche una buona dose di intuito, alimentata dall’esperienza.

Negli ultimi otto anni il mondo delle imprese innovative italiane ha vissuto un momento di cambiamento positivo e gli investitori nel nostro paese sono aumentati, benché il livello di investimenti rispetto agli altri player europei sia ancora basso.

Se è vero però che oggi le start up si lanciano e si propongono di più rispetto al passato, è altrettanto vero che non tutte hanno le idee chiare in testa e le gambe robuste per far correre il loro progetto, e monetizzarlo.

Per capire come una start up dovrebbe presentarsi e quali sono quelle più appetibili, ne abbiamo parlato con Alessio Beverina, co-founder di Panakes, uno dei primi fondi venture capital italiani dedicati al mondo delle scienze della vita. Fondata nel 2015 da Fabrizio Landi, Alessio Beverina e Diana Saraceni, ha in gestione 250 milioni, divisi in due fondi: il primo del 2016 che ha raccolto 80 milioni, il secondo, Purple, del 2023, che ha raccolto 175 milioni di euro, piazzandosi di fatto come il primo fondo italiano dedicato al Life Science, con focus di investimento in Italia ed Europa, oltre che Regno Unito, Svizzera, Israele e Stati Uniti.

Voi siete nati nel 2015. In questi anni come è cambiato il mondo del venture capital italiano, soprattutto sul fronte delle scienze della vita?

Nel 2015 il mondo in Italia era molto diverso da quello attuale. Si investivano più o meno 200 – 250 milioni di euro all’anno in start up tecnologiche, mentre oggi siamo a circa 2 miliardi. All’inizio c’erano pochi fondi venture capital e oggi ce ne sono più di venti, tra cui cinque dedicati al mondo life science. È cambiata la sensibilità degli investitori. Nel 2015, per raccogliere il nostro primo fondo di 75 milioni di euro, abbiamo fatto una fatica incredibile. Nel 2021 è stato molto più facile, siamo riusciti a portare on board molti più investitori, casse di previdenza, corporate, ecc. E devo dire che anche le start up si sono evolute. Se all’inizio dall’Italia arrivavano un centinaio di richieste di investimento all’anno, oggi siamo a 300.

A cosa si deve questo cambio di passo?

Gli imprenditori oggi si rendono conto che non è più necessario andare in banca o chiedere ai parenti i finanziamenti, ma possono rivolgersi ad altri professionisti come i venture capitalist. Penso inoltre che l’attività di Cassa Depositi e Prestiti, CDP Venture Capital, abbia creato molte opportunità di investimento. Per cui è tutto frutto di una serie di fattori:  il sistema che evolve nella direzione giusta, i soldi che arrivano, le start up che si lanciano, gli imprenditori che si rendono conto che anche in Italia è possibile fare impresa innovativa.

Anche la pandemia ha aiutato?

Assolutamente sì. Noi abbiamo iniziato a raccogliere investimenti per il secondo fondo nel giugno 2020, in piena pandemia, ed è chiaro che in quel momento ci fosse un estremo interesse, anche da parte degli attori istituzionali, a investire in  un fondo che indirizzasse i suoi capitali verso le scienze della vita. Perché a forza di sentir parlare di tamponi, diagnostica, vaccino, terapie, dalla mattina alla sera, anche gli Investitori non professionali nel settore si sono resi conto dell’importanza dell’innovazione di un tale dominio. 

Veniamo alle start up innovative. Ce ne sono molte che vorrebbero capire come trovare chi creda in loro e voglia investire nel loro progetto. Quando decidete di investire in una start up, su cosa basate la vostra decisione?

Intanto partiamo dal fatto che Panakes oggi riceve in media 1200 richieste di investimento l’anno, di cui un 15% dall’Italia. Tra le 1200 opportunità la prima cosa che guardiamo è se è qualcosa che entra nel nostro focus di investimento, quindi medical devices, biotech, diagnostica, etc. E se poi l’opportunità ha un potenziale molto importante.

Cosa vuol dire avere un potenziale molto importante? Come lo calcolate?

Noi investiamo tra i quattro-cinque milioni di euro per ogni progetto, potendo arrivare anche a dieci in alcuni casi. Se una start up ha come target un mercato che vale 50 milioni di euro l’anno, non ha molto senso investirci, perché significa che al massimo, se copro il 100% di quel mercato, posso arrivare a 50 milioni di euro.

Che obbiettivo di mercato avete quindi?

Le nostre società devono avere un target di almeno 400 milioni di mercato potenziale annuale. Cosa vuol dire? Vuol dire avere come obbiettivo la cura di malattie importanti, oppure che non hanno soluzioni già esistenti. In secondo luogo, guardiamo alla tecnologia proposta (un farmaco, un dispositivo medico, etc..) e quindi quanto questa tecnologia sia differenziante rispetto all’esistente. Terzo aspetto, valutiamo la forza dei brevetti, in particolare il mondo farmaceutico, e quanti capitali sono necessari per arrivare a uno sviluppo della tecnologia interessante: se per sviluppare una società e portarla dalla fase preclinica a una fase due (clinica ) sono necessarie centinaia di milioni di euro, magari non è adatta a Panakes che investe al massimo dieci milioni di euro.

Però voi non valutate solo il potenziale di mercato, ma anche di valorizzazione dell’azienda.

Esatto. Riprendendo quindi il nostro esempio, nel momento in cui l’azienda entra sul mercato, se fa tutte le cose bene, se il prodotto funziona bene, se risolve il problema di salute e arriva al 100% dei pazienti, potrebbe fatturare 400 milioni l’anno, con i margini classici del mondo medicale che sono molto elevati. Una società come questa, capaci di generare grossi profitti, acquista valore di per sé e potrebbe a sua volta essere comprata a un valore molto maggiore rispetto a quello fatturato, oppure essere quotata in Borsa.

Ecco perché un altro aspetto che valutiamo quando decidiamo di investire in una start up è se esistono società simili (come target e settore) che sono state acquisite. Ti faccio due esempi molto pratici. Noi abbiamo investito in una società che si chiama Complement Therapeutics, un’azienda di biotecnologie in fase preclinica che sviluppa nuove terapie per le malattie mediate dal complemento. I due competitor che si occupano della stessa patologia valgono ciascuno sette e quattro miliardi in Borsa. E stiamo parlando di fasi precliniche, la terapia sul mercato non ci è ancora arrivata.

Quindi alcune aziende riescono ad aumentare il loro valore ancora prima di dimostrare sui grandi numeri il potenziale della terapia?

Sì, perché è sufficiente dimostrare che la tecnologia funziona anche in una fase due (la fase della sperimentazione clinica in cui si testa la tossicità e l’attività del farmaco su poche persone, ndr). In base a questi risultati, l’acquirente- che potrebbe essere un grande gruppo farmaceutico – decide di acquistarla in questa fase e di portare poi avanti le altre fasi: se potenzialmente l’azienda può fatturare due miliardi di euro l’anno, una grande pharma può decidere di investirci anche un miliardo inizialmente, sapendo che sarà ripagata in poco tempo.

Riassumendo, quali sono quindi gli aspetti che considerate prima di investire in una start up?

Valutiamo il potenziale di mercato, cerchiamo di capire qual è l’unicità della loro tecnologia e dei brevetti, guardiamo i competitor e se ci sono state transazioni finanziarie nel settore simili che fanno sperare un’exit molto importante. Ma valutiamo anche il team di investimenti che gestirà poi la start up e verifichiamo quanti capitali siano necessari per arrivare a far generare valore all’azienda.  Una volta fatto questo, noi investiamo i soldi. Inizialmente possono essere quattro-cinque milioni, fino ad andare a dieci milioni in base allo stadio di sviluppo della società.

In che modo investite nella società?

Partiamo dal fatto che queste società in cui investiamo sono a fatturato zero. Al contrario del mondo del private equity, che investe comprando società a due-quattro volte il loro valore, nel nostro caso, visto che l’azienda deve ancora partire e non genera fatturato, non possiamo utilizzare le regole standard, per cui decidiamo caso per caso. Di solito acquistiamo quote della società che possono variare dal cinque al 50%. La media è intorno al 20-25%.

Quindi non avete un intento predatorio?

No, i venture capitalist non agiscono così. Al massimo acquistiamo il 50%, poi certo se nella società entrano anche altri investitori, può essere che l’imprenditore della start up rimanga con una quota di minoranza, ma noi non andiamo oltre il 50%. Tendenzialmente, il mondo del venture capital è un investitore di minoranza.

Una volta acquistate le quote, che succede?

Entriamo nel consiglio di amministrazione e cerchiamo di aiutare il team per svilupparsi al meglio e  il più rapidamente possibile. Forniamo aiuto in ambito strategico, regolatorio, market access, ma diamo un aiuto anche sul fronte delle risorse umane perché spesso le start up all’inizio possono contare su un numero esiguo di persone che hanno competenze prettamente tecniche, meno imprenditoriali.

E infatti questo è uno dei motivi per cui tante falliscono

Esatto. Faccio un esempio: quando abbiamo investito in MMI una start-up high-tech italiana in fase clinica nel campo della microchirurgia fondata nel 2015, – all’inizio c’erano 6 persone: un clinico e cinque ingegneri. Nel tempo abbiamo ingrandito il team di executive con un clinical affair, regulatory affair, VP sales, Vp manufacturing, e altre figure che provenivano dal mondo dell’industria: abbiamo costruito un team executive con le competenze necessarie. Professionisti che a loro volta hanno assunto altri professionisti sotto di loro.  Oggi MMI è una società che ha 150 persone. Però tutto questo è stato fatto con un grosso supporto da parte dell’investitore, che oltre a finanziare start up aiuta la stessa a trovare nuovi investitori.

Ad esempio, sempre con MMI, nel 2017, quando incontrai l’amministratore delegato, lui ci chiese 8 milioni di investimento. Facemmo assieme il business plan per valutare i capitali necessari, che secondo l’analisi erano in realtà 20 milioni! Aiutai l’imprenditore a cercare altri finanziamenti, oltre a quelli che potevamo dare noi come Panakes. Abbiamo raccolto 20 milioni con investitori stranieri. Nel 2021, abbiamo portato l’imprenditore presso altri investitori che conosciamo, cercando di convincerli a investire nella società. Abbiamo raccolto altri 75 milioni da fondi americani.

Cosa consiglieresti quindi a una start up in cerca di investitori?

L’aspetto fondamentale è riuscire a far capire all’investitore che il potenziale della sua tecnologia è molto importante e che risolve un vero problema di salute, non un semplice miglioramento dell’esistente.  Deve soddisfare un evidente unmet medical need che non è risolto o lo è in maniera complicata o costosa. Quindi se tu hai una soluzione di questo tipo hai più chance che l’investitore ti guardi.

E per quanto riguarda i ricercatori universitari che vogliono far fruttare i loro brevetti, a loro cosa consiglieresti?

Le persone che lavorano all’interno di fondi come Panakes sono estremamente specializzate. Noi abbiamo medici, abbiamo phd, biologi e quant’altro, per cui riusciamo a capire la tecnologia, ma fino a un certo punto. Quello che è il Technology transfer officer o il ricercatore deve essere capace di fare è di riuscire a spiegarci in maniera il potenziale della sua tecnologia. Perché spesso quello che fanno è mandarci il brevetto, ma io dal brevetto non ci ricavo nulla, a me serve capire il valore della tecnologia che propongono.

Quindi dovrebbero essere più competenti del comunicare il potenziale della loro ricerca?

Esatto. Faccio un altro esempio. Nel 2016 una professoressa di Brescia ci presenta il suo progetto legato a un sistema di diagnostica per identificare l’Alzheimer a partire dalle gocce del sangue. Il progetto ci era stato presentato molto male, anche i dati erano presentati in maniera molto destrutturata. Il mio partner, che aveva esperienza con altre   società nel campo della diagnostica dell’Alzheimer, si è reso conto di avere di fronte un diamante grezzo. Ha iniziato a lavorare in maniera puntuale con la ricercatrice e abbiamo deciso di fare un piccolo investimenti per trasformare il diamante grezzo in qualcosa di più. E ce l’abbiamo fatta.

 

Vi abbiamo raccontato l’esperienza di Panakes perché è stato il primo fondo di Venture Capital italiano specializzato nelle scienze della vita e ha aperto la strada a ciò che è venuto dopo. Capire come una start up deve presentarsi oggi agli investitori è importante non solo per l’azienda stessa, ma anche per il sistema su cu decide di impattare: un’ottima idea, che ha il potenziale di salvare vite umane, rischia di rimanere chiusa in un laboratorio o dentro un cassetto se non viene comunicata nel modo giusto o non trova l’investitore attento. Fallire è facile in questo settore, ma come sempre la competenza gioca un ruolo determinante. Vi racconteremo le esperienze anche di altri fondi che hanno deciso di investire nelle scienze della vita nel nostro paese.

Keypoints

  • Dal 2015, gli investimenti annuali nelle start-up innovative in Italia sono passati da 250 milioni a circa 2 miliardi di euro nel 2022, indicando un maggior interesse da parte degli investitori
  • Questi investimenti comportano rischi elevati e richiedono un capitale significativo: la scelta di investire in queste start-up richiede competenze specifiche e una buona dose di intuito basato sull’esperienza
  • Negli ultimi anni, il numero di fondi venture capital è aumentato, inclusi quelli focalizzati sul settore delle scienze della vita
  • Gli imprenditori italiani hanno iniziato a considerare i venture capitalist come una fonte alternativa di finanziamento rispetto alle banche e ai finanziamenti familiari
  • La pandemia ha aumentato l’interesse per gli investimenti nel settore delle scienze della vita
  • I criteri di investimento di Panakes includono la valutazione del potenziale di mercato, l’unicità della tecnologia proposta, la presenza di concorrenti e transazioni finanziarie simili nel settore. Inoltre, viene valutato il team di gestione della start-up e il capitale necessario per generare valore per l’azienda
  • Startup e mondo Universitario devono imparare a comunicare meglio il valore delle loro idee, il brevetto da solo non basta

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