CheckmAb: scacco macco al cancro con l'immunoterapia

Abrignani, CheckmAb: «Dobbiamo insegnare ai ricercatori a essere imprenditori»

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Tiziana Tripepi

Perché ne stiamo parlando
Il professor Sergio Abrignani, fondatore della biotech CheckmAb, che ha febbraio ha raggiunto un importante milestone nello sviluppo di un nuovo farmaco per l’immunoterapia oncologica, ci spiega come si fa a trasformare la ricerca in valore.

«Non bisogna vergognarsi di pensare che una scoperta scientifica, oltre a creare valore per gli altri, possa farlo per se stessi. Occorre insegnare ai ricercatori a essere imprenditori. E per farlo dobbiamo importare in Italia quei ricercatori, italiani e stranieri, competenti nel technology transfer che in questo periodo vorrebbero lasciare gli Stati Uniti. Il momento è ora».

È il parere di Sergio Abrignani, professore di Patologia all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto Nazionale di Genetica Molecolare “Romeo ed Enrica Invernizzi” (INGM). Insieme a Massimiliano Pagani, professore di Biologia Molecolare all’Università statale di Milano, ha fondato la startup CheckmAb, una delle partecipate di Primo Capital, piattaforma dedicata agli investimenti tecnologici. La startup, che impiega sette ricercatori tra i 25 e i 35 anni, ha raggiunto a febbraio un importante traguardo: il secondo milestone per lo sviluppo di un nuovo farmaco per l’immunoterapia oncologica, che apre le porte alla sperimentazione clinica.

 

In che cosa consiste la vostra scoperta?

«Abbiamo avuto la grande fortuna di identificare un bersaglio terapeutico: due molecole presenti (in gergo “espresse”) su linfociti soppressori che stanno all’interno dei tumori. A partire da questa scoperta abbiamo sviluppato due anticorpi monoclonali, un particolare tipo di farmaco che bersaglia in modo specifico le due molecole, risolvendo un problema che in questo momento ha l’immunoterapia (ne avevamo parlato anche qui)».

Ci spiega meglio?

«Mentre fino a 20 anni fa per curare un tumore si colpivano direttamente le cellule tumorali, tra il 2005 e il 2010 si è verificato un cambio di paradigma rivoluzionario: l’immunoterapia, che agisce sul sistema immunitario, dove a fronte di cellule “buone”, che eliminano il tumore, ce ne sono altre “cattive” che spengono questa risposta immunitaria, “sopprimendo i soppressori”. Lo scopo dell’immunoterapia è eliminare queste cellule “cattive”. Ma anche questo tipo di terapia presenta un problema…».

Che tipo di problema presenta l’immunoterapia?

«Quasi tutti i pazienti sottoposti all’immunoterapia sviluppano malattie autoimmuni, che nel 10% dei casi possono portare alla morte. Noi siamo andati alla ricerca di cellule del sistema immunitario che fossero presenti su cellule del sistema immunitario soppressorio solo quando queste sono all’interno del tumore, e non quando sono fuori. Così facendo, anziché eliminare la soppressione in tutto l’organismo, la eliminiamo solo nel tumore. Ne abbiamo identificate diverse, e a maggio 2016 abbiamo depositato il brevetto».

È stato allora che avete fondato CheckmAb?

«CheckmAb è stata fondata nel 2018, con l’idea di sviluppare farmaci (anticorpi monoclonali) che bersagliassero molecole presenti solo sulle cellule immunitarie soppressorie, che abbiamo descritto in una nostra pubblicazione del 2016».

Qual è stato il primo passo?

«Abbiamo raccolto 10 milioni sul mercato del venture capital e creato un team di ricercatori con forte attitudine alla ricerca industriale, sotto la guida del direttore scientifico Renata Maria Grifantini. Nel 2022 eravamo pronti per lo sviluppo clinico, ma avevamo bisogno di altri capitali. Abbiamo organizzato un road show e incontrato venture capital e aziende. Tra queste, la Boehringer Ingelheim, una delle più grandi big pharma europee, con la quale abbiamo concluso un accordo nel 2023 su una delle molecole più avanzate (ne avevamo parlato qui)».

Cosa prevedeva l’accordo?

«Abbiamo concesso all’azienda tedesca la licenza esclusiva a livello mondiale per lo sviluppo di un anticorpo monoclonale, in cambio di 240milioni di euro, di cui una parte in anticipo e il resto al raggiungimento di determinati traguardi (milestone), fino alla fase 3. Un mese fa, grazie alla collaborazione molto produttiva con Boehringer Ingelheim, abbiamo raggiunto il secondo di questi traguardi, che apre le porte alla sperimentazione clinica. Tra un anno andremo nell’uomo o, come si dice in gergo, first time in man».

La sua è una storia di successo, in cui colpisce la capacità di portare avanti contemporaneamente ricerca e creazione d’impresa. Come ha fatto?

«Avevo il know-how. Prima di fare ricerca accademica, ho accumulato 20 anni di esperienza nell’industria: prima al centro di ricerca Ciba di Basilea, poi alla Chiron Vaccini a Siena, infine come Vicepresident di Ricerca e Sviluppo della Chiron Corporation, una delle più importanti aziende mondiali di biotecnologie, con sede a nord di San Francisco. Proprio lì, a pochi chilometri da me, a Berkeley, tutti i professori creavano startup… ».

L’Italia non riesce a trasformare la ricerca scientifica in impresa, cosa ci insegna invece il mondo anglosassone?

«Le più grandi aziende biotech nel mondo anglosassone nascono nelle università, dove ci sono veri e propri corsi universitari su come diventare imprenditori di se stessi. Se prendi i 10 migliori ricercatori americani nel campo della biomedicina e ti chiedi quanti hanno fatto startup, la risposta è: tutti. In Italia? Una piccolissima minoranza. Se guardiamo alle poche exit importanti che sono state fatte nel nostro mondo, non erano progetti che venivano dall’accademia, ma da business a business. Non c’è la cultura della creazione di impresa perché non la insegniamo».

Che cosa manca in Italia?

«Innanzitutto il capitale di rischio. In Francia (che ha 300mila ricercatori e nel 2023 ha attirato 7,5 miliardi di euro di venture capital) ogni ricercatore attira 22mila euro di venture capital, contro i 6mila dell’Italia (che ha 160mila ricercatori e un miliardo di euro in venture capital). Eppure la Francia non è un Paese così diverso dal nostro. Ma mancano anche le persone che facciano da “ufficiali di collegamento” tra ricercatori e venture capital: i cosiddetti Technology Transfer Officer».

Qual è il ruolo dei Technology Transfer Officer?

«I TTO sono professionisti che sanno tradurre il linguaggio del ricercatore in un linguaggio adeguato al venture capital, affinché l’innovazione possa essere capita e finanziata. Svolgono un ruolo fondamentale perché se si riesce ad attirare il capitale di rischio, si riuscirà anche a fare technology transfer, cioè a dare valore alla propria scoperta».

Qual è la strada per riuscirci?

«Bisogna reclutare all’estero persone che lo sanno fare, e importarle da noi. In questo momento ci sono tanti ricercatori, sia italiani che stranieri, che vorrebbero lasciare gli Stati Uniti a causa dei tagli alla ricerca imposti da Trump, tanto che le migliori università europee, come Zurigo, Heidelberg e Parigi li stanno reclutando con programmi adatti. Dovremmo farlo anche noi affinché insegnino ai nostri ricercatori, con un focus sulle due o tre cose su cui siamo veramente carenti».

… che sono?

«Technology transfer e technology development. Ma anche produzione biotech: l’Italia è eccellente nella produzione di farmaci chimici, mentre non c’è nessuna azienda che produce a livello industriale i farmaci biotecnologici come i “nostri” anticorpi monoclonali».

Che consiglio si sente di dare ai nostri ricercatori?

«Il lavoro del ricercatore consiste nel porsi delle domande per chiarire meccanismi prima sconosciuti, che servono a migliorare la qualità della vita delle persone e a dare la speranza di nuove terapie. Un lavoro bellissimo. Ma occorre fare un passo ulteriore, e pensare che quello stesso meccanismo può creare un valore economico per se stessi. Una delle molle che spinge i ricercatori a essere imprenditori è far loro capire che possono diventare milionari. Non bisogna vergognarsi di questo».

Il team della società e il CdA + la segreteria e il legale: i ricercatori Mirco Toccafondi, Noemi Di Marzo, Elena Zagato, i consiglieri Sergio Abrignani e Giorgio Barba Navaretti, il CSO e GM Renata Maria Grifantini, il consigliere Massimiliano Pagani, il presidente Marco Venturelli, il consigliere Carlo Marchetti, il ricercatore Luca Sorrentino, la segreteria Donatella Balconi, il legale Simona Siciliani, i ricercatori Cecilia Valvo e Federica Bianchi

Keypoints

  • CheckmAb è una biotech fondata nel 2018 dai professori Sergio Abrignani e Massimiliano Pagani, con l’idea di sviluppare farmaci (anticorpi monoclonali) che bersaglino molecole presenti solo sulle cellule immunitarie soppressorie
  • Grazie alla sua ricerca nel campo dell’immunoncologia, CheckmAb è riuscita a identificare un bersaglio terapeutico: due molecole presenti su linfociti soppressori che stanno all’interno dei tumori. A partire da questa scoperta, ha sviluppato due anticorpi monoclonali
  • Nel 2023 la startup ha concesso alla big pharma tedesca Boehringer Ingelheim la licenza esclusiva a livello mondiale per lo sviluppo di uno di questi due anticorpi monoclonali, in cambio di 240milioni di euro
  • A febbraio 2025 ha raggiunto un traguardo importante: il secondo milestone per lo sviluppo di un nuovo farmaco per l’immunoterapia oncologica, che apre le porte alla sperimentazione clinica
  • Questo risultato è stato raggiunto grazie alla lunga esperienza del professor Abrignani nel campo dell’industria e nell’aver messo a punto un team di ricercatori con esperienza di ricerca industriale
  • Secondo Abrignani, in Italia manca il capitale di rischio e le persone che facciano da collegamento tra ricercatori e venture capital: i cosiddetti Technology Transfer Officer, professionalità che in questo momento potrebbero essere importate dagli Stati Uniti per insegnare la cultura di impresa ai nostri ricercatori

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