Scacco matto al cancro. Questo l’obiettivo di CheckmAb, startup impegnata nello sviluppo di nuove terapie contro i tumori. Fondata nel 2018, CheckmAb nasce come spin off dell’Università di Milano e oggi è tra i player che a livello mondiale stanno cercando di rivoluzionare le terapie oncologiche addestrando il nostro sistema immunitario a combattere in modo efficace le cellule cancerogene. Come? Sviluppando anticorpi monoclonali (mAbs).
«L’immunoterapia ha rivoluzionato nel corso degli ultimi dieci anni la terapia oncologica. Il nostro obiettivo è sviluppare una nuova classe di farmaci per l’immunoterapia dei tumori che, rispetto a quelli attuali, possano avere minori effetti collaterali a parità di efficacia» spiega Sergio Abrignani, Professore Ordinario di Patologia generale all’Università di Milano, e fondatore di CheckmAb.
«La nostra sfida nasce da una considerazione: per l’attuale immunoterapia dei tumori si ricorre a farmaci, ormai usati regolarmente per il melanoma, il carcinoma ai polmoni e altri tumori caldi, che tolgono il freno alla risposta immunitaria bloccata dalle cellule cancerose. Farmaci che in una frazione dei pazienti oncologici procurano un beneficio clinico importante. In altre parole, riescono a riattivare le risposte difensive e inducono le cellule del sistema immunitario a riconoscere il tumore e a impedirne la crescita. Ma questi farmaci finiscono con l’innescare anche qualche forma di autoimmunità a danno di molti organi – parliamo di epatiti, dermatiti, polmoniti, coliti, ecc. – che nel 5-10% circa dei casi è rilevante a tal punto che bisogna interrompere la terapia».
Che caratteristiche hanno invece gli anticorpi di CheckmAb?
«I nostri anticorpi, anziché bersagliare le molecole che sono sulle cellule immunitarie di tutto l’organismo, bersagliano solo quelle che stanno nei tessuti malati e così riescono a togliere il freno in modo selettivo, evitando di conseguenza che il sistema immunitario si attivi inopportunamente. Nello specifico, abbiamo condotto lo sviluppo preclinico di anticorpi monoclonali in grado di inibire in modo selettivo una sottopopolazione di linfociti T presenti nel tessuto tumorale».
Quali?
«I linfociti T regolatori che sopprimono la risposta immunitaria che eliminerebbe il tumore. Così facendo i nostri anticorpi consentono la riattivazione dell’attività anti-tumorale del nostro sistema immunitario. Pertanto questa immunoterapia di precisione, che non coinvolge altri linfociti al di fuori del tumore stesso, dovrebbe evitare i gravi effetti collaterali immunomediati delle attuali terapie basate su anticorpi che eliminano però la soppressione non solo nell’ambiente tumorale ma anche in tessuti normali. E potenzialmente, sono anticorpi idonei al trattamento di diversi tumori solidi».
Perché hanno una potenziale applicazione in diversi tipi di neoplasie?
«Prima dell’immunoterapia, che rappresenta la nuova frontiera delle terapie oncologiche, i trattamenti erano organo specifici, per cui avevamo terapie per il tumore del polmone, altre per il tumore del rene e così via. Con l’immunoterapia, invece, non si va a colpire le cellule tumorali ma le cellule del sistema immunitario che sono uguali in tutti i tumori. È una terapia cosiddetta agnostica: non ci si chiede, cioè, in quale organo si origina il tumore, ma solo se il tumore è molto mutato o poco mutato, perché l’immunoterapia funziona meglio quanto più il tumore è mutato. E lo sono particolarmente i cosiddetti tumori caldi, perché esposti ai mutageni ambientali, quali il sole, il fumo, il cibo spazzatura, gli inquinanti ambientali, che contribuiscono ad aumentare il carico mutazionale delle nostre cellule e contribuiscono all’innescarsi della neoplasia. Ne sono un esempio il melanoma della cute, esposto agli effetti mutageni dei raggi solari, e il tumore del polmone, esposto agli inquinanti ambientali e al fumo di sigaretta.
Ebbene, la nostra immunoterapia si indirizza a questi tumori, colpisce le cellule mutate del sistema immunitario, che sono le stesse in tutti i tumori».
Non solo cancro, però. L’obiettivo di CheckmAb è sviluppare anche immunoterapie di precisione per le malattie autoimmuni?
«Sì, perché in fondo tumori e malattie autoimmuni sono due facce della stessa medaglia.
Il nostro sistema immunitario è come un sistema a due braccia: uno effettore, che induce la risposta immunitaria, e l’altro soppressore, che invece tende a spegnere questa risposta.
Se siamo in stato di salute, queste braccia sono in equilibrio. Nel microambiente tumorale, invece, l’equilibrio salta a favore del braccio che tende a disattivare il sistema immunitario, a sopprimere la risposta immunitaria.
Al contrario, in caso di malattie autoimmuni, prevale la componente che elimina o danneggia ciò che il sistema immunitario non riconosce e si crea un deficit di risposta soppressoria.
Dunque, se nel microambiente tumorale vogliamo spegnere la risposta soppressoria, quella cioè che disattiva il sistema immunitario lasciando campo libero alla proliferazione tumorale; al contrario nel caso delle malattie autoimmuni la si vuole contenere.
Faccio un esempio che è già pratica clinica. Sappiamo che CTLA4 è una molecola che spegne la risposta immunitaria. Nel microambiente tumorale allora viene usato un anticorpo (ipilimumab) che agisce contro CTLA4, in modo che la risposta antitumorale si attivi. Nelle malattie autoimmuni c’è invece un deficit di CTLA4 e allora si ricorre a un altro farmaco (abatacept) per stimolare l’azione di questa molecola e quindi spegnere la risposta autoimmune.
Noi, avendo identificato una serie di molecole che stanno sulle cellule soppressorie in diversi tessuti, vogliamo verificare se alcune possono essere stimolate e così spegnere la risposta immunitaria in caso di malattie autoimmuni».
State lavorando insomma anche per mettere a punto un interruttore molecolare per frenare la risposta impazzita del nostro sistema immunitario?
«Esattamente».
Tornando invece al vostro anticorpo monoclonale per l’immunoterapia dei tumori, CheckmAb ha stretto un accordo di collaborazione con la società tedesca Boehringer Ingelheim.
«Sì, abbiamo concesso la licenza esclusiva a Boehringer Ingelheim affinché completi lo sviluppo clinico necessario per poter far arrivare il nostro anticorpo al mercato. L’accordo prevede un pagamento Upfront di circa 23 milioni e poi una serie di pagamenti a milestone per un complessivo di 240 milioni fino alla fase 3 di efficacia. E, se il farmaco andrà sul mercato, il 6-7% di royalties sul venduto andranno a CheckmAb».
Nel frattempo state lavorando a un secondo farmaco e ad altre molecole. Come attrarre nuovi investimenti?
«Per attrarre investimenti servono progetti validi, dagli obiettivi chiari così come chiaro deve essere il percorso verso la clinica e ben definiti devono essere i tempi per l’ottenimento dei risultati. Se l’idea è buona in genere i soldi si trovano».
Come alimentare invece nella comunità scientifica italiana la cultura imprenditoriale, per poter portare dai laboratori di ricerca al mercato i risultati dell’attività accademica?
«La cultura imprenditoriale si crea insegnandola, ma purtroppo nelle nostre università si fa ancora poco in tal senso e inoltre c’è un grosso deficit di professionisti esperti di trasferimento tecnologico.
Si consideri che in Italia abbiamo 180mila ricercatori (dati del 2023) e abbiamo attratto un miliardo di capitali di rischio. La Francia, invece, con 320mila ricercatori ha attratto 7,5 miliardi di fondi di Venture Capital. Questo vuol dire che ogni ricercatore in Italia attira un po’ più di 6mila euro, mentre in Francia quasi 24mila euro. Eppure per quanto riguarda la produzione scientifica l’Italia è comparabile con la Francia».
Insomma, su questo fronte bisogna necessariamente fare qualcosa.
«Non qualcosa, ma tanto. Occorre knowledge, formazione, saper fare. Quindi, da un lato ben venga che si investa di più sul trasferimento tecnologico, ma soprattutto bisogna investire nella formazione di una classe dirigente esperta di tech transfer. Le università devono formare professionisti in questo campo. E devono farlo in fretta, perché la ricerca è competitiva e corre veloce. Nel frattempo dobbiamo attrarre esperti dall’estero: una necessità evidenziata dal numero di operazioni che facciamo. Del miliardo di cui sopra di fondi Venture Capital, solo 140 milioni erano destinati al settore Life Science. E questo la dice lunga sul fatto che il trasferimento tecnologico nel settore biomedico presenta diverse criticità che dobbiamo assolutamente colmare».