Startup

Emendamento startup: tutti i punti (commentati) del testo contenuto nel Ddl Concorrenza

Perché ne stiamo parlando
È stato depositato ieri alla Camera l’emendamento al Ddl Concorrenza approvato lo scorso luglio, che contiene norme importanti per la crescita dell’ecosistema delle startup.

Ddl Concorrenza, ora è davvero Startup Act 2.0

Avevano provocato delusione e preoccupazione tra le associazioni di categoria le norme sulle startup innovative contenute nel Ddl Concorrenza approvato lo scorso luglio dal Governo su proposta del ministero delle Imprese e del Made in Italy. Norme che nelle intenzioni si ponevano come uno Startup Act 2.0, frutto del tavolo di lavoro aperto dal MIMIT con InnovUp, Italian Tech Alliance e le principali associazioni di categoria, ma che nella realtà apparivano incomplete e lontane dallo spirito dello Startup Act del 2012 (ne avevamo parlato qui). Ma si era anche detto che era previsto un secondo atto: ed ecco che il 20 novembre scorso è stato concordato un emendamento al Ddl Concorrenza che elimina alcune di quelle norme e ne introduce altre, apportando un notevole miglioramento alla prima stesura. Tali modifiche sono state depositate ieri alla Camera.

I punti principali, spiegati (e commentati)

Esaminiamo punto per punto tutte le novità con l’aiuto di Gianmarco Carnovale, imprenditore e presidente dell’associazione Roma Startup, che come esperto di startup policy ha fornito supporto conoscitivo al Governo in funzione dei ragionamenti a monte degli emendamenti. E con Giorgio Ciron, Direttore di InnovUp, l’associazione che rappresenta l’ecosistema italiano dell’innovazione.

La detrazione in de minimis per le persone fisiche che investono in startup sale dal 50% al 65%, ma è limitata ai primi tre anni di vita

Le persone fisiche che vogliano investire in startup possono usufruire di due tipi di detrazioni Irpef. La detrazione “ordinaria”, invariata, che consiste nel 30% del valore dell’investimento fino a un massimo investito di un milione di euro, e la detrazione in de minimis (chiamata così perché concessa ai sensi di un Regolamento Ue del 2013 detto de minimis), che fino a oggi è stata del 50%. Quest’ultima detrazione sale ora dal 50 al 65% ma dura solo fino al terzo anno di iscrizione della startup al registro ed è vincolata a investimenti non qualificati, cioè che portino partecipazioni societarie o diritti di governance non superiori al 25%.

Carnovale: «La prima fase di vita di una startup è quella in cui raccoglie i fondi preseed e seed e riceve la maggior parte degli investimenti da persone fisiche e business angel. È per questo motivo che abbiamo voluto potenziare l’incentivo fiscale per le persone fisiche. Ma ci sono altri tre elementi molto importanti che sono stati inseriti nell’emendamento. Il primo: le detrazioni (sia ordinaria che in de minimis) non scattano se il contribuente è anche fornitore di servizi alla startup per un fatturato superiore al 25% dell’investimento agevolabile. Il secondo: nel caso si utilizzi il cosiddetto contratto SAFE, che è uno strumento “quasi-equity” in forma di convertendo, la detrazione matura subito, cioè quando la startup riceve il bonifico e non (come succedeva finora) quando è convertito in equity, magari dopo due o tre anni. Il terzo: prima, se la startup falliva o esercitava un diritto statutario di co-vendita nei primi tre anni dall’investimento, l’investitore perdeva la detrazione. Ora la mantiene».

Gianmarco Carnovale, imprenditore e presidente dell’associazione Roma Startup

Ciron: «La detrazione in de minimis non è la più utilizzata, ma con l’incremento dal 50 al 65% potrebbe avere uno sviluppo molto forte. Attenzione però perché nella legge di bilancio sarà inserito un tetto alle detrazioni sulle persone fisiche che purtroppo ricomprende anche quelle per investimenti in startup. Ci batteremo per un’esenzione di queste ultime dal tetto al fine di non rendere inutilizzabili questi nuovi e positivi incentivi».

Giorgio Ciron, Direttore di InnovUp

Check di affidabilità dopo tre anni (e poi dopo altri 2 + 2)

Alla fine del terzo anno la startup può rimanere nel registro delle imprese per altri due in presenza di almeno uno dei sei seguenti requisiti: incremento del 25% nelle spese di ricerca e sviluppo; stipula di almeno un contratto di sperimentazione con una pubblica amministrazione; incremento dei ricavi o dell’occupazione superiore al 50% dal secondo al terzo anno; costituzione di riserva patrimoniale superiore ai 50mila euro con incremento al 20% delle spese di ricerca e sviluppo; ottenimento di almeno un brevetto e trasformazione in Spa.

Questo termine di cinque anni si può estendere per altri due (e dopo di questi al massimo per altri due) in presenza cioè di almeno uno tra i seguenti due requisiti: 1) aumento di capitale a sovrapprezzo da parte di un OICR di importo superiore a un milione di euro o 2) aumento dei ricavi derivanti dalla gestione caratteristica dell’impresa superiore al 100% annuo.

Carnovale: «Funziona come un filtro selettivo poiché alla fine del terzo anno solo chi ha uno di questi sei requisiti può rimanere nel registro delle imprese per altri due anni. Alla fine dei 3+2 anni, se la startup fa aumenti di capitale o raddoppia i ricavi (in altre parole diventa una scaleup) ha altre due estensioni possibili di due anni ciascuna. In sostanza, è come se il registro fosse stato segmentato per fasi di vita della startup: 3+2+2+2. Questa modalità a “stadi” è perfettamente coerente con le reali fasi di validazione e crescita tipiche delle moderne startup, e la nuova durata è perfetta per il deep tech, che ha dei periodi di ricerca e sviluppo più lunghi».

Ciron: «Siamo molto contenti che il requisito del capitale sociale a 20mila euro entro i primi due anni dall’iscrizione al Registro (inserito nel Ddl di luglio) sia stato sostituito con questi nuovi requisiti che meglio rappresentano l’innovatività di una startup, e da requisiti ancora più sfidanti per i successivi quattro. Questa norma consente di concentrare le risorse sulle startup che dimostrano prima di essere innovative, poi di stare sul mercato e internazionalizzarsi».

Gli enti di previdenza potranno ottenere l’esenzione della tassa sui capital gain solo se investono una quota in venture capital

Gli enti di previdenza obbligatoria e complementare potranno ottenere l’esenzione dalla tassa sui capital gain (26%) soltanto se impiegano una quota del loro portafoglio agevolato investito in economia reale (che è pari al 10% annuo del totale attivo patrimoniale) in quote o azioni di fondi di venture capital. Tale quota deve essere pari al 5% nel 2025 e al 10% a partire dal 2026.

Carnovale: «È questa la norma che cambia davvero il gioco, che dà luogo a una sorta di patto intergenerazionale tra chi ha i propri risparmi nei fondi di previdenza e i giovani talenti che fanno impresa. Sappiamo che gli enti di previdenza possono investire fino al 10% dell’attivo patrimoniale in economia reale italiana (i cosiddetti investimenti qualificati, che includono l’immobiliare, le infrastrutture, l’azionario…) e ottenere su questi un’esenzione fiscale sui capital gain. Nel termine “economia reale” sono già compresi anche i fondi di venture capital, così importanti per la crescita delle startup e farle diventare nuove grandi imprese italiane. Ma nella realtà succedeva che in venture capital si investisse pochissimo, principalmente per una cattiva comprensione di un’asset class altamente redditizia oltre che di valore strategico per l’industria nazionale. Per fare in modo che questa situazione cambi, il governo ora pone una condizione all’ottenimento dell’esenzione sulla tassa sui capital gain, mettendo una percentuale obbligatoria minima. Che, prendendo confidenza con lo strumento e con la sua redditività, spero che possa anche essere superata in futuro».

Ciron: «È una buona misura, perché vincola l’incentivo fiscale che oggi quasi tutti i fondi pensione usano all’allocazione di una buona percentuale dei loro fondi all’asset class del venture capital, ma aspettiamo di vedere come reagirà il mercato. La finanza si muove con dinamiche di rischio-rendimento molto complicate che dipendono dalla fiducia degli investitori».

Chi svolge attività di agenzia o consulenza non può essere classificato come startup innovativa (e quindi accedere alle agevolazioni)

Tra le novità c’è il fatto che non possono fregiarsi del titolo di startup innovative (e di conseguenza essere ammesse al Registro speciale e godere delle agevolazioni a loro favore) le startup che svolgono attività di agenzia o consulenza.

Carnovale: «Il Governo ha inteso operare una selezione qualitativa, concentrando risorse su imprese ad alto potenziale. Agenzie e società di consulenza non sono business scalabili, non possiedono i requisiti per gli investimenti del venture capital tipici delle startup, e non hanno margini per contribuire ad una futura competitività industriale. Di conseguenza non c’era motivo per cui questo tipo di imprese si trovassero in un perimetro così fortemente agevolato».

Ciron: «È una mossa che condividiamo in pieno. È ragionevole stimare che circa l’8,4% delle startup attive a settembre (1.081 su 12.927) possa essere escluso, in quanto il loro codice ATECO principale di queste società rientra nelle categorie di consulenza o agenzie».

Ti è piaciuto questo articolo?

Share

Registrati per commentare l’articolo

News

Raccolte

Articoli correlati