Un progetto ha preso vita come una scintilla, da una sfida lanciata a bruciapelo ad un giovane ingegnere, l’altro è nato tra i letti ospedalieri, dall’ascolto di una richiesta di aiuto di un primario in difficoltà a fare diagnosi nel proprio reparto. Il primo ha avuto la prima, “lussuosa” sede, in un garage, al pari di certe storie americane; il secondo si è sviluppato nei laboratori del CNR, nel profondo sud dell’Italia. Entrambi si sono trasformati in aziende di successo, che vendono le loro strumentazioni in tutto il mondo. E mentre una, che si occupa di microchirurgia robotica, per opportunità di mercato ha trasferito la propria sede da Pisa in Florida, l’altra, un’azienda pugliese di diagnostica medica, ha scelto di rimanere in Italia, anche per risparmiare. Vediamo come tutto questo è accaduto.
Dalla sfida di sfidare la precisione della mano umana è nata Medical Microinstruments Inc.
“I microchirurghi oggi operano con occhiali ingrandenti o un microscopio, ma soprattutto a mano libera impugnando dei semplici strumenti come pinzette o forbicine. Dissezionano e poi suturano tra loro, con aghi piccolissimi e suture fini come un capello dei minuscoli vasi sanguigni dal diametro di 1mm o più piccoli, come nel caso di vasi linfatici, con il fine di ripristinare il normale flusso”, spiega Massimiliano Simi, VP R&D e Co-Founder di MMI, ossia Medical Microinstruments Inc., durante una pausa dal convegno internazionale di robotica e automazione a cui sta partecipando a Londra.
“La procedura è molto complessa e capita che i chirurghi debbano intervenire più e più volte, o che i pazienti debbano anche ritornare in sala operatoria. Con il nostro robot il chirurgo impugna due joystick ergonomici che movimentati nell’aria trasferiscono il movimento scalato e filtrato al robot e ai suoi strumenti articolati miniaturizzati con una stabilità e precisione estrema; fino a dieci volte superiore a quella della mano umana. Questo permette anche a chirurghi meno esperti di svolgere con successo interventi molto complessi e ai grandi professori di eseguire procedure nuove ed espandere le possibilità della microchirurgia” Questa è l’idea che ha portato al successo il gruppo di ingegneri che ha fondato MMI. Nato in un garage della provincia pisana, il gioiello per la microchirurgia viene oggi commercializzato per una cifra di poco inferiore al milione di euro. In Italia al momento è presente nel solo Istituto Ortopedico Rizzoli ,ma il mercato europeo ha accolto con un certo favore l’innovazione. “Abbiamo già i nostri robot in uso in alcuni dei principali centri europei, in Svizzera, Germania, Austria, Spagna e Svezia, Grecia”, spiega Simi “e con essi sono già stati operati oltre 300 pazienti”.
Con un dottorato in chirurgia robotica, un anno di esperienza in America, insieme ad un altro visionario hanno deciso di creare lo strumento più piccolo al mondo che riproducesse la destrezza della mano umana. “Una volta realizzato un prototipo funzionante di strumento, abbiamo capito che era qualcosa di speciale ma che necessitava di un robot per poterlo movimentare; quindi, ci siamo chiesti in che ambito applicarlo. La Microchirurgia è stata una scelta naturale” Chi vi ha aiutato? “I nostri primi finanziatori Business Angels li abbiamo trovati nel circuito di ex allievi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che avevano lanciato nel 2015 un programma di scouting di start-up. Con il primo mezzo milione ho potuto assumere tre ingegneri, con i quali nel 2016 abbiamo realizzato il prototipo dell’intero robot. Da lì abbiamo trovato micro-chirurghi che ci hanno aiutato nell’eseguire gli studi preclinici, dimostrando il 50% in meno di probabilità di sviluppare una trombosi dopo un intervento robotico. Con questi risultati abbiamo convinto investitori istituzionali europei nel finanziare la società” Da 7 persone l’azienda in brevissimo è cresciuta a più di 50 e con il marchio CE ottenuto a fine 2019 è arrivata la possibilità di vendere il robot in Europa.
“Ma il Covid ci ha fermato, abbiamo dovuto attendere diversi mesi prima di metterci in moto”, ammette Simi. Siete partiti dall’Italia? “Si, ma subito con un piano internazionale; ma in Italia gli ospedali faticano sempre a trovare le risorse nonostante sia una delle nazioni con il più alto numero di robot chirurgici al mondo”. In altri paesi pare ci siano più soldi da spendere “Si, fortunatamente gli ospedali in cui il sistema è già installato stanno collezionando molti dati e speriamo che vengano pubblicati presto. Le future pubblicazioni dei risultati clinici ottenuti fino ad oggi darà maggior motivazione ad acquisire la nostra tecnologia anche a chi non è un early adopter. Nel frattempo, lo scorso anno abbiamo preso un finanziamento da venture capital americani, perché il nostro prossimo obiettivo è il mercato americano che rappresenta il principale mercato della chirurgia robotica.
Là gli ospedali fanno a gara per avere strumentazioni innovative”. Quindi in US ci sono più risorse o c’è anche dell’altro? “Ci sono molte più risorse, ma c’è anche una mentalità diversa e un contesto sanitario differente”, racconta il fondatore dell’azienda pisana di robotica. “In Europa, in cui le risorse sono limitate, si ha un approccio molto più cerebrale; si aspetta di avere molti dati, forti evidenze cliniche ed economiche; per questo si è più cauti. Negli Stati Uniti, se vedono che una tecnologia all’avanguardia la vogliono, la comprano e costruiscono per primi il futuro. Avere una nuova sede a Jacksonville in Florida aiuterà la nostra espansione oltreoceano.”
La risposta di Echolight alle esigenze di medici ospedalieri: la diagnosi strumentale anche al letto del paziente
Echolight S.p.A, che oggi è cresciuta e non è più una start up, ha creato la tecnologia R.E.M.S. (Radiofrequency Echographic Multi Spectrometry), un metodo brevettato e rivoluzionario per la diagnosi precoce dell’osteoporosi utilizzando l’ecografia, senza l’uso di radiazioni.
Il progetto è nato da un team di ricercatori dell’Istituto di fisiologia clinica di Lecce del CNR insieme a soci dal mondo imprenditoriale, per rispondere ad una richiesta arrivata dal mondo clinico, ovvero la necessità di avere un prodotto innovativo senza raggi x che fosse applicato alla colonna vertebrale e femore e che potesse essere utilizzato direttamente nei reparti ospedalieri. “Questo è stato già un vantaggio per il nostro progetto, perché spesso il trasferimento tecnologico avviene dal laboratorio alla clinica, senza un dialogo precedente; pertanto, certi progetti sono frutto unicamente delle elucubrazioni mentali dei ricercatori”, spiega Sergio Casciaro, CEO e fondatore di Ecolight.
Spin-off del CNR (dove nel 2009 ancora non c’era un regolamento per spin-off!) il gruppo di inventori, per formare la società hanno raccolto il denaro vinto come premio startup Puglia, e del Premio Nazionale Innovazione. “Abbiamo fatto tutto da soli, e consideri che il trasferimento tecnologico è un processo molto complesso”.
L’attività di fundraising è stata complicatissima, ricorda il CEO di Ecolight. “I venture capital praticamente non esistevano. Poi abbiamo conosciuto un fondo italiano che ci ha permesso di sviluppare il prodotto, ottenere le certificazioni medicali e iniziare i primi studi clinici in collaborazione con il CNR e fare il brevetto, depositato nel momento in cui abbiamo sottoscritto il contratto di investimento.” Anche sul brevetto, il percorso è stato tortuoso, “l’Europa esiste solo sulla carta. Abbiamo ottenuto il brevetto mondiale quando siamo arrivati in Europa ci hanno detto di decidere in quali uffici brevettuali europei volevamo depositare brevetti. Negli Stati Uniti il brevetto uno per il mercato, che è enorme. In Europa abbiamo deciso di andare sui mercati principali, Francia, Germania, Spagna e Italia, ed è stato comunque molto costoso”. In Italia un altro percorso lunghissimo prima di essere inseriti nelle linee guida ministeriali. È chiaro che viene più facile andare negli stati Uniti, dove non hai tutta questa complessità”, ammette Casciaro. Pronti per fare le valige anche voi? “Per noi la sede è indifferente. A dire il vero, qui in Italia che è un paese che spende e crede poco nella ricerca, fare ricerca è meno costoso che in altri paesi mentre abbiamo delle menti estremamente brillanti: un ricercatore di un ente di ricerca italiano viene pagato meno che negli Stati Uniti dove in genere l’ecosistema della ricerca gode per altro di infrastrutture di ricerca davvero importanti. Situazione questa che non premia e facilita chi ha voglia di fare innovazione”. Ci racconta in che cosa consiste la vostra tecnologia?
“Noi abbiamo creato una nuova macchina che è una sorta di ecografo che da un lato usa l’ecografia standard per guidare la scansione e in parallelo tutto il segnale che viene drenato dalla sonda con il suo alto contenuto di informazione viene processato ed elaborato con un sistema basato su algoritmi. Utilizziamo poi l’intelligenza artificiale per analizzare i dati e fornire la diagnosi sulla qualità dello stato osseo. Adesso lo stiamo sviluppando anche per la parte muscolare, perché non si parla più soltanto di osteoporosi, si parla di osteosarcopenia. I pazienti si infortunano non soltanto perché hanno un deficit osseo ma spesso perché hanno anche un deficit muscolare. Abbiamo iniziato con ospedali privati”, prosegue Casciaro, “ma con l’uscita delle line guida sono iniziati i bandi negli ospedali pubblici”. Tra le strutture che hanno acquistato il dispositivo di Ecolight ci sono l’Umberto I di Roma, il Policlinico di Bari, il Niguarda, il San Raffaele. “Con la nostra strumentazione permettiamo a specialisti come reumatologi ed endocrinologi di eseguire l’esame della qualità ossea in ambulatorio o anche al letto del paziente, perché si può spostare con grande facilità. In questo modo si evita il passaggio nei reparti di Radiologia che sono sempre molto affollati. Inoltre, permettiamo ai pazienti di essere sottoposti ad un esame che non è solo diagnostico, ma preventivo.”
Un consiglio per i ricercatori da un ricercatore che ha avuto successo: “Se uno ha un’idea pensa che una buona idea prima di tutto ne vada a parlare con cui chi la può sfruttare quell’idea, cioè va confrontata con il mercato. Se il mercato risponde positivamente, allora è una buona idea. È necessario fare networking, partecipare a concorsi per start up, incontrare Venture Capitalist e Business Angels”. La direzione che è recentemente presa in campo di trasferimento tecnologico è sicuramente giusta, ma le mente vanno valorizzate di più, sostiene il CEO di Ecolight. “Quando uno crea una start up è come lanciarsi da un dirupo e mentre si precipita si costruisce l’aereo per volare. Almeno io l’ho vissuta così e sono stato fortunato.” L’azienda di Lecce conta ora centinaia di dipendenti e lo scorso anno ha raggiunto un fatturato di 5 ml di euro, grazie ad un mercato che è uscito dall’Europa raggiungendo il Giappone, oggi primo cliente, gli Stati Uniti e la Cina.