Hanno costruito un modello di intelligenza artificiale che analizza le parole utilizzate nei sistemi di conversazione aziendale come Teams e Slack, rilevando il livello di stress dei dipendenti di un’azienda prima che compaiano i sintomi di malessere o di burnout. Francesco Finazzi, ingegnere elettrico, Mauro Delucis, sviluppatore software, Cecilia Dompé, psicologa, e Matteo Mendula, ricercatore in intelligenza artificiale, sono i fondatori di Myndoor, startup costituita nel 2021 che opera nel segmento del corporate wellness, ma aspira a diventare una medtech. «Volevo fare qualcosa che potesse lasciare un segno», ha dichiarato Finazzi, che è anche il Ceo.
Com’è nata l’idea?
«Nella mia “prima vita” facevo il pilota militare» racconta Finazzi. «Con un collega flight surgeon (medico) ragionavamo su come lo stress e in generale il fattore umano costituisse la principale causa di incidenti durante le missioni, ma mancava un metodo in grado di monitorare in modo costante il benessere psicologico delle persone. Abbiamo cominciato a raccogliere dati e a fare conferenze».
Il problema è diffuso?
«Il 73% dei dipendenti dichiara di aver vissuto situazioni di stress o ansia legate al lavoro e il 32% ha provato sensazioni di esaurimento, percentuale che sale al 47,7% tra i giovani. Lo dice l’8° Rapporto Censis Eudaimon 2024 sul benessere aziendale, ma sono tanti gli studi che confermano la presenza di vari tipi di sofferenza sul posto di lavoro. Lo stesso studio dice che per l’83,4% dei dipendenti italiani è una priorità che l’occupazione contribuisca positivamente al proprio benessere, sia fisico sia mentale. Dunque c’è anche un grande bisogno di trovare soluzioni».
Quando è avvenuto il salto da pilota a imprenditore?
«A fine 2020 ci siamo iscritti a una call di Fondazione Golinelli e abbiamo vinto un percorso negli Usa con Mind The Bridge, per perfezionare la nostra idea. A quel punto dovevo fare una scelta: continuare il mio lavoro di pilota oppure congedarmi e iniziare un’attività imprenditoriale. Non ho avuto dubbi: volevo fare qualcosa che potesse lasciare un segno».
Quando è nata Myndoor?
«La società è stata costituita nel novembre 2021 per registrare i brevetti della tecnologia. Insieme a me, tre soci: Mauro, Cecilia e Matteo. Il primo prodotto sul mercato lo abbiamo lanciato a fine 2023».
Qual è la novità che avete introdotto?
«I metodi utilizzati all’epoca per rilevare lo stress si basavano su colloqui saltuari con psicologi e l’utilizzo di wearable. Noi abbiamo studiato le connessioni tra la semantica, cioè il significato delle parole e lo stato psicologico delle persone, e lo abbiamo fatto attraverso un modello di intelligenza artificiale in grado di analizzare le parole, sia scritte che parlate (per ora utilizziamo il parlato registrato nelle chat, non lo abbiamo ancora applicato alle videocall).
Come funziona?
«Il nostro sistema viene integrato all’interno dei sistemi di comunicazione aziendale come Teams e Slack e analizza le parole utilizzate nelle conversazioni tra colleghi, rilevando il livello di stress dei dipendenti prima che compaiano i sintomi di malessere o di burnout. Il tutto nel totale rispetto della privacy. Quando intercetta un aumento dello stress, manda all’utente degli alert, oltre a esercizi studiati con gli psicologi e adattati a quel particolare livello di malessere. Se tutto questo non dovesse bastare, il dipendente viene messo in contatto con professionisti, coach o psicologi, per definire un percorso personalizzato».
E l’azienda?
«Grazie a una dashboard, può seguire in tempo reale trend e picchi di stress tra i suoi dipendenti, ma per motivi di privacy può vedere solo il dato aggregato e anonimizzato. Come per i dipendenti, anche all’azienda sono fornite linee guida, predizioni e consigli in merito a interventi su politiche di riduzione dello stress. Inoltre il sistema fornisce dei dati che possono essere utilizzati per compilare i report ESG. Il nostro strumento tocca sia l’aspetto sociale sia la governance nelle politiche di sostenibilità. E può essere inserito nei piani di welfare aziendali, che sempre più imprese stanno introducendo».
Qual è il vostro modello di business?
«Il nostro è un Saas (Software as a Service) b2b. Il target sono aziende di white collar dai 50 dipendenti in su. Ma vorremmo presto renderlo disponibile anche a un pubblico “consumer”. Insieme alla società G Welfare di Gabetti abbiamo sviluppato un’app indirizzata a un utente privato, che testeremo a breve. Inoltre abbiamo fatto un test in campo Iot (Internet of Things) per i lavoratori ad alto rischio, quelli che per esempio lavorano sui tralicci dell’alta tensione e per i quali la conoscenza del malessere potrebbe salvare la vita».
Quali sono state le difficoltà nel vostro percorso?
«All’inizio è stato difficile trovare i primi capitali (a oggi la startup ha raccolto più di 700mila euro tra investitori istituzionali, business angel e soft money, ndr), perché chi investe su di te vuole vedere la traction, la capacità di far presa sul mercato velocemente. Inoltre esiste ancora un tabù intorno alla salute mentale: non tutte le aziende vogliono riconoscere l’esistenza del problema, che invece c’è. Ma bisogna insistere in questa direzione, le nuove generazioni sono sempre più attente al benessere in azienda e cercano aziende allineate ai loro valori».
Quali le prossime mosse?
«Presto apriremo un nuovo round da 1,5 milioni di euro per consolidare il mercato attuale e iniziare ad avere traction per il mercato statunitense, in cui non esiste una tecnologia basata sulla semantica. Inoltre insieme a ospedali e ricercatori stiamo lavorando alla validazione clinica della nostra soluzione: l’obiettivo è che diventi uno strumento non solo di screening ma anche di diagnosi, per supportare le terapie. A questo scopo a fine 2024 siamo entrati in Vita, l’acceleratore di startup di digital health di Cassa depositi e prestiti».