«Ogni azienda per crescere deve superare i confini nazionali, ma questa necessità diventa un imperativo per un particolare tipo di impresa, la startup, che per natura deve crescere esponenzialmente e in un periodo di tempo relativamente breve». A parlare è Massimo Carnelos, Responsabile dell’ufficio Innovazione Tecnologica e Startup istituito a inizio anno presso il Ministero degli Affari Esteri, che si occupa proprio di promuovere all’estero il nostro ecosistema nazionale dell’innovazione: non solo startup e scaleup ma anche acceleratori, incubatori, parchi scientifici e tecnologici, startup studio…
Le startup italiane nascono con l’idea di scalare?
«La maggior parte di esse no, diciamo che prevale un certo provincialismo. Ed è qui che si inserisce la nostra opera di “evangelizzazione”: incontrare le startup proprio allo scopo di far capire quanto sia importante che l’internazionalizzazione sia parte della loro strategia dal primo giorno. Gli italiani sono dei brillanti innovatori, con grandi competenze scientifiche e tecnologiche, ma spesso lasciano a desiderare sulla parte di crescita aziendale. In questo campo bisogna essere veloci, la tempistica è molto importante».
Che tipo di azioni promuove il suo ufficio?
«Il nostro braccio operativo è l’Agenzia ICE che organizza la partecipazione italiana alle grandi fiere tecnologiche internazionali e ha programmi di accelerazione all’estero. E da qualche anno un ruolo importantissimo lo sta svolgendo Innovit (il cui steering committee interministeriale è gestito da noi, in collaborazione con l’Ambasciata italiana a Washington, il Consolato Generale a San Francisco e la stessa ICE-Agenzia), hub polifunzionale con sede a San Francisco, ponte tra l’Italia e la Silicon Valley dove si organizzano incontri, seminari, si fa formazione e attività di sostegno per l’accesso al mercato, scouting tecnologico per corporate italiane ma soprattutto programmi di accelerazione».
Quando è indispensabile rivolgersi a capitali esteri?
«Nelle fasi di crescita della startup. Se nella fase early stage si riescono a trovare capitali italiani, quando si passa ai round Series B, C o D l’investitore straniero diventa fondamentale. Negli ultimi anni però stiamo cercando anche noi di aumentare la consistenza dei fondi later stage: CDP Venture Capital ha un fondo late stage e il nuovo fondo di Intelligenza Artificiale avrà ticket minimi piuttosto alti».
Le startup vanno sostenute con capitali di rischio, e in Italia non siamo proprio ai primi posti negli investimenti in Venture Capital…
«Quello che manca ai nostri fondi di Venture Capital è la lungimiranza, la giusta dose di scaltrezza per affrontare il rischio. Spesso si continua a investire sulla stessa startup, anche se non sta dando i risultati attesi, invece bisogna avere il coraggio di staccare la spina. Sappiamo che nel Venture Capital i soldi non si fanno con le nove startup che vanno male ma con l’unica che andrà bene, e che ti ripagherà nelle altre nove e molto di più. È la Power Law, e per vedere i suoi effetti non bisogna guardare un singolo fondo ma la media del venture investito».
Che cosa sta facendo il Governo?
«Il governo ha fatto la sua parte con la creazione di un fondo dei fondi. Dal 2019, quando fu costituito il Fondo Nazionale Innovazione, a oggi CDP Venture Capital ha avuto in gestione 3,5 miliardi. Purtroppo però rimane l’unico operatore sistemico. Il loro intervento avrebbe dovuto contribuire alla crescita di un mercato privato del venture, ma quest’ultimo ancora stenta: tra investimenti diretti e indiretti, CDP Venture in Italia fa una buona metà degli investimenti in Venture Capital».
Il suo ufficio si occupa anche di sostegno alle cosiddette tecnologie di frontiera: biotech, Intelligenza Artificiale, quantum computing, cybersecurity. Come si pone il biotech all’interno del panorama dell’innovazione?
«È un settore relativamente più maturo degli altri. E questo perché in Italia c’è una grande tradizione nella ricerca pubblica, all’interno dell’università, ma anche un’industria farmaceutica solida. Questo ha consentito la nascita sia di fondi di Venture Capital verticali (tra gli altri Panakès Partners, Indaco Ventures che ha un fondo dedicato al Pharma-bio, Claris Ventures, XGen Venture, ndr) sia di fondi di corporate Venture Capital (pensiamo ad Angelini Ventures e a Chiesi Ventures). Il risultato è che diverse startup biotech italiane hanno ricevuto investimenti da parte di fondi americani. Una di queste è AAVantgarde (ne avevamo parlato qui: https://www.innlifes.com/business/round-di-investimento-biotech/)»
Qual è il vostro apporto in questo campo?
«Proprio in questi mesi è stato creato un Tavolo di lavoro per l’internazionalizzazione delle industrie nel settore delle biotecnologie, i cui risultati sono contenuti in un rapporto ad interim presentato il 16 ottobre al Ministero degli Esteri dai Ministri Tajani e Schillaci. E il 25 ottobre si è svolto a Washington un bilaterale tra Italia e Stati Uniti, su temi quali ricerca e finanziamenti. Gli Stati uniti sono l’interlocutore più importante e il mercato principale. Non dimentichiamo che il biotech è fondamentale non solo per la cura delle patologie del mondo ricco, come il cancro, le malattie cardiovascolari e il diabete ma ha un ruolo cruciale anche nel campo della sicurezza nazionale, basti solo pensare al rischio rappresentato dalle armi batteriologiche».
Qual è il ruolo di Enea Tech?
«Non investe solo in startup ma può investire anche in aziende già consolidate, progetti di ricerca e aziende straniere che decidono di trasferirsi in Italia. Ma non è una Sgr, non gestisce cioè masse per terzi. Ha avuto una partenza molto travagliata, ma proprio in questi giorni la Direttrice Generale Maria Cristina Porta ha annunciato l’arrivo dei primi soldi sul conto corrente».
Ci fa il nome di qualche startup o scaleup che sta dando grandi soddisfazioni?
«Nel campo dell’Intelligenza Artificiale iGenius di Uljan Sharka e Translated, fondata da Marco Trombetti e Isabelle Andrieu, che vende soprattutto all’estero il suo prodotto di traduzione assistita dall’Intelligenza Artificiale. Nel campo della cybersecurity Exein, fondata da Gianni Cuozzo: tra i suoi clienti ha un’azienda come Nvidia, leader mondiale nella produzione dei chip impiegati nell’addestramento del deep learning. In Italia invece vende pochissimo».
Perché?
«Qui si apre un altro discorso: le nostre corporate non comprano innovazione dalle startup perché hanno paura di problemi reputazionali. Questo è grave perché impedisce alle startup di aumentare il proprio fatturato e crescere in modo endogeno, senza necessariamente dover sempre ricorrere a investimenti esterni a capitali stranieri. Tutto il contrario di quanto accade in Francia: qui le grandi aziende comprano innovazione dalle startup, perché l’Eliseo opera una moral suasion per indurre a investire almeno una quota del proprio budget di innovazione fornita dalle startup».
Che consigli si sente di dare alle startup italiane?
1. Andate sul mercato internazionale dal giorno zero, 2. Inglese da sapere alla perfezione, 3. Abbiate idee molto chiare sulla strategia di crescita, non basta la tecnologia; 4. (per le aziende deep tech) curate da subito gli aspetti di proprietà intellettuale; 5. Abbiate il coraggio di fallire. Nulla va perso: le competenze che avete maturato rimarranno nell’ecosistema».